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Enzo Moscato - Il pensiero teatrante

Enzo Moscato

a cura di Isabella Selmin


Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.

E. Moscato

 

L'Ingenuo-furbo Gulliver di provincia (per Annibale Ruccello)

Da questo punto di vista, e parlo sempre a titolo personale, che si commemori o meno la data del lungo viaggio senza (apparente) ritorno di Annibale; che l'ennesimo gruppo di mercanti d'anime o di spettri, di stanza permanente dovunque, metta in scena, o non metta in scena, la svendita tardiva di ciò che lui ha dato, in appena sei-sette anni, a un teatro esangue, tarato, malato a morte di folcloriche nostalgie, com'era quello napoletano prima di lui, mi è completamente indifferente.
Come credo sia completamente indifferente a Ruccello.
In qualsiasi luogo egli possa trovarsi in questo momento.
Perché è vivo, questa è la paradossale verità.
Vivo, nonostante il silenzio su di lui, o nonostante le poche chiacchiere tese a ricordarlo, comprese le mie.
Vivo, voglio dire: respira, palpita, s'incazza, gioisce, s'addolora.
Esattamente come facciamo noi. In quanto è dentro noi, con parole, invettive, visioni, degne assolutamente di essere accanto a quelle, in altri tempi, espresse da Viviani o da Eduardo o dai più intensi e giovani scrittori "maledetti" europei: Byron, Shelley, Nievo, Radiguet, Rimbaud, Lautreamont.
E questo con buona pace di chi vorrebbe sbrigativamente liquidarlo con l'epigrafe para-enciclopedica di "giovane emergente commediografo di Castellammare, presso Napoli, perito in un incidente stradale, ad appena trent'anni, gesummio, che peccato!".

Emotivamente, ho sempre "rifiutato" la morte di Ruccello.
L'ho rimossa, negata, sin dai primi istanti successivi alla incredibile, terribile notizia, datami per telefono quella sera del 12 settembre 1986. E questo rifiuto, questa rimozione, questa negazione del suo svanire fisicamente dal mondo e da questa città (che, in verità, non l'ha mai amato, come non ama nessuno che voglia cambiarla o aiutarla a cambiarsi) continua a persistere in me, ancora tuttora, con una caparbietà e una tenacia infantili che, sono certo, dureranno fino a che avrò respiro, fino al giorno in cui anch'io, suo amico e suo complice a teatro, sarò chiamato a raggiungerlo là dove credo si è rifatto un'altra bella carriera. Qualcosa di avventuroso, ma che nulla ha a che fare coi teatranti. Me lo immagino ora, un trafficante d'armi, come Rimbaud dopo la grande stagione all'inferno della sua poesia, o cacciatore di tenebre esotiche, come i migliori eroi di Conrad.
Questa persistenza della vita di Ruccello in me, oltre e nonostante la morte, questa specie di Malombra ma senza compiacimento letterario, è da ascrivere senz'altro all'onnipotenza magica, annullatrice del reale, di uno schizofrenico, certo; ma anche all'intima, differente natura di quelle enigmatiche creature che, per convenzione, chiamiamo artisti, e che non si arrendono mai (non dovrebbero arrendersi mai) neppure davanti alla più evidente bruttura del reale, al più spietato tradimento del nostro puerile, ma sublime, sogno di eternità. Eternità da guitto, è logico.>BR /> Tutta fintoni, catinelle, mezze quinte, carta pesta.
Qualcuno troverà che sragiono, ma per me è naturalissimo che io viva così ancora tutt'oggi, quel geniale fanciullone; quel candido e, allo stesso tempo, perverso estensore di storie ispirate al camp, alla novellistica nera, ai cult-movies americani, innestandoli sul grande tronco della letteratura verista o naturalista meridionale, imbrattandoli, di continuo, con la sua fecale, irriverente, martellante lingua tutta vesuviana.
Trovo naturalissimo conservarlo nelle parole che batto a macchina, nei gesti che traccio sulla scena, nelle volute della voce tesa ad accendere inquiete interrogazioni negli orecchi di chi ci viene a guardare o a "sentire" a teatro.
Simpatizzammo subito, io e Annibale, com'era fatale che succedesse. Per la nostra, quasi identica, età, per il cursus studiorum comune in filosofia, per la comune visione, politica e umana, che avevamo del mondo, ma, soprattutto, ci accomunò, la stessa mancanza di fiducia (o di speranza) che, quello che immaginavamo e praticavamo a teatro, potesse avere un futuro o una qualche gloria, sia pure postuma. Perché, per noi, era chiaro che futuro e gloria si cominciano a costruire, o a consolidare, a partire dall'interesse attuale, presente, della gente, e così, consapevoli che i nostri spettacoli, più che spettacoli, almeno allora, quando ci conoscemmo (1982) sembravano delle messe desolate, per pochi, sparuti, elettissimi accoliti, era, dunque, più che ragionevole diffidare di qualunque vita "a venire" di ciò che, tra quinte e cantinelle, stavamo facendo, della nostra scrittura.
Come molti sanno, per entrambi, le cose poi non sono andate esattamente così. Soprattutto a lui, ad Annibale, specialmente dopo quella sua tragica, prematura scomparsa, mi sembra sia stato riservato un po' di più di un banale futuro drammaturgico e anche un po' di gloria postuma, per quanto sempre colpevolmente tardiva. Mi sono spesso chiesto, ovviamente, quanto e in che misura, quel tipo di morte, quel tipo di straziante addio, che Annibale, quasi beffardamente, ha finito col lasciarci, abbia o non abbia influito sui produttori, sui registi, gli attori, i critici, che, in seguito, a più riprese, hanno avuto a che fare con il suo teatro, ma è un chiedersi vano, questo, perché, a mio avviso, la certo involontaria, ma curiosamente mitica sua fine in macchina, è ormai indissolubilmente intrecciata all'interesse, all'amore, all'ossessione, per il mito, soprattutto per quello, o quelli, contemporanei, che serpeggiano in tutta la sua breve, ma intensa parabola drammaturgica.
E, a parte questo, un'altra cosa che, di continuo, mi chiedo, e che, ne sono certo, anche Annibale, all'altro mondo, si chiederà, è quanto di quella suddetta mancanza di fiducia (o di speranza) che Ruccello nutriva, a proposito della vita futura e della postuma gloria delle sue cose di teatro, rimane o insiste nelle attuali riproposte delle sue pièces. Quanto cioè di quel sospetto, di quella nicciana diffidenza, di quel suo giovanile, ma già profondo pessimismo, al riguardo dell'attenzione e della "reale" accettazione che il mondo poteva riservare alle sue opere e alla sua radicale "differenza", come uomo e come artista, entri o non entri, agisca o non agisca, attualmente, come elemento disturbante, oppositore, nei nuovi spettacoli senza di lui, così come nei convegni, nei seminari, nei libri, negli articoli, che da un po', gli vengono dedicati, o che sono a lui ispirati, e che, se non fosse che la commemorazione di qualcuno non è un reato, meriterebbero, in gran parte, il capestro per empietà, trastullagine e incompetenza.
Mi assale, infatti, ogni tanto, il brivido sinistro che tutto questo, tutta questa "festa per il compleanno del caro amico Harold" - ricordo, per inciso, che il mio Compleanno, scritto apposta per l'uomo/drammaturgo Ruccello, esattamente all'indomani della sua morte, 1986, in epoca, dunque, non in odore di comoda beatificazione - possa costituire soltanto una moda, un esorcismo, un'inconsapevole, forse, ma comunque subdola, maniera di metterlo veramente a morte, e per la via più sbrigativa e a-problematica possibile. Mi vorrei sbagliare, ma temo che i miei brividi, come spesso accade, già me la dicano lunga, e tristemente, su ciò che sentono.
Sono anni, del resto, che io e qualche altra anima pia del teatro napoletano, andiamo esigendo e sollecitando, finalmente, uno studio teatrale critico, serio ed accurato, al riguardo della scrittura di Annibale.
Sono anni che aspettiamo che, piuttosto che lanciarsi con appetito onnivoro, quanto indifferente, sulle sue cose teatrali, compresi i suoi intimi pensieri distrattamente affidati a cartuscelle, si faccia prioritariamente piena luce sulla sua verità e scomodità d'autore, ripeto: sulla sua "radicale differenza" rispetto a quanto, teatralmente, l'aveva preceduto, o marchiato, come me, del resto, dell'epiteto di orfano, quando non di spurio, o di bastardo, del nostro atavico e nobile istinto capo-comicale. Ed esigiamo e sollecitiamo quanto sopra, non per mettere a tacere la sua parola, o per declassarla, ma per farla giustamente risplendere della sua autentica magia e forza.

Enzo Moscato, 26 maggio 1994