Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
La Rivoluzione, tutto ciò che io penso della Rivoluzione, tutto ciò che io sento consistere dentro di essa, è affidata a due lunghe frasi, due lucidi-appassionati pensieri, che ho riportato pari-pari nella scrittura e nella rappresentazione de Sull'ordine e il disordine dell'ex macello pubblico (1999), che proprio alla Rivoluzione (nella fattispecie, quella napoletana-giacobina del 1799) ho dedicato, ma in modo non celebratorio e anti-convenzionale.
Il primo di questi pensieri è di Hannah Arendt e suona così:
"Tutto questo, e forse ancora di più, andò perduto
quando lo spirito della Rivoluzione -
uno spirito nuovo e la volontà di dare inizio a qualcosa di nuovo -
non riuscì a trovare un'istituzione appropriata.
Non c'è nulla che possa compensare questa perdita
O possa evitare che divenga definitiva,
tranne la memoria e la rievocazione dei fatti.
E poiché il magazzino della memoria è tenuto e vigilato dai poeti,
che hanno il compito di trovare e creare le parole per cui viviamo,
può essere saggio rivolgersi a loro, per trovare un'articolazione approssimativa del contenuto reale dei nostri tesori perduti".
Il secondo è, naturalmente di Antonin Artaud, che, identificando la Rivoluzione con la radicale di-messa in scena di tutte le nostre più meschine finzioni di realtà, afferma che era il teatro
"quella forza che impastava l'anatomia umana,
quella petulanza di un fuoco innato
da cui furono sgranati gli scheletri primitivi,
quella forza di un umore esploso,
quella specie d'irascibile tumore
in cui si fuse lo scheletro primigenio.
È nell'impasto ritmico di tutti gli scheletri evocati
Che la forza innata del teatro caratterizzava l'umanità.
Lì, l'uomo e la vita venivano di tanto in tanto a farsi rifare."
Ora, tra l'uno e l'altro di questi due pensieri, scorre, a mio avviso, tutto il sangue, nero e celestiale, della Necessità/Libertà della Poesia intesa come Azione, la sola che possa redimere l'ingiustizia e la stoltezza immane della Storia. A un certo punto della scrittura/scena de Sull'ordine e il disordine dell'ex macello pubblico io smettevo di ragionare, di far quadrare i conti con le categorie, la logica, il tempo, lo spazio e prendevo a delirare, ad affidarmi, ac cadaver, a questa corrente della Poesia, ad affidarmi solo alle sue sananti/unificanti onde:
Archivi, musei, istituzioni,
Case e cullifici del ricordo -
Aridi dedali, secchi labirinti,
ove ciò che fu, non è,
più non respira.
La scintilla l'hanno trattenuta lì;
Lì l'hanno imprigionata, ingelita, ingessata,
pietrificata, mummificata, incartapecorita,
ad oblio permanente d' 'o Memorial
'e chilli juorne.
La scintilla passò,
Per la prima volta sfiorò, toccò,
Questo luogo traversato MAI dall'utopia.
Ccà, 'a Storia s'è rotta, na matina
'E nu mese poi ditto nevoso.
Ddoie parti s'è spezzata dint' 'e cosce,
Gomm'a nu cavallo nciampecàto alla battaglia.
Senza ca nisciuno ne sapesse niente
O sapesse balbettà 'o pecché e il come e il quando
esattamente,
Senza passà pe n'imbroglione,
Na vocca gigantesca di bolle di sapone.
Che rimmane? 'O riesto 'e niente, s'è detto.
Ovvero stanze -
Manchevoli di fatti e di LORO - 'aa ggente - ;
Manchevoli di QUELLO - 'a storia -
Che, fulmine, apparve, disparì,
'o tiempo 'e nu suspiro.
Che rimmane? 'O niente 'e nu riesto -
Invisibile, del resto -
E meandri, corridoi, boudoirs,
Coi silenzi fantasmatici 'e deserto,
E dipinti, giornali, carte, oggettistica, indumenti.
E monete, chincagliame, "douces plumes".
Impronte irrilevabili del sangue
Che, da inchiostro, prestò na pista
In cui nfònnere le suole, l'orma fuggitiva
Delle scarpe,
De' mani e i piedi in corsa che assalirono
I gradini,
Di regge o di tuguri, di templi, o di vinelle,
Quando tutto - e tutto fu un momento, nu secondo -
S'infiammò nella rivolta, l'arrevuoto.
E cantari colmi d'urina
Di qua e di là portati da valletti
schiavuttielli
per l'algido splendore dei salotti.
Cerchi 'e fuoco verde -
saltimbanchi, giostrerie, tuguri a festa.
Banchetti antropofagici per l'apo e l'ipo-geo
del verminoso nurego dei vichi.
Non la Storia o la Cronaca della Rivoluzione, no.
Ma il suo Spirito -
se ancora Spirito ce n'è… -
il suo clima, il suo umore, il suo odore, la sua puzza.
In ordine/disordine dati, per inizio, svolgimento, fine.
Non carni, non ossa, non muscoli, non lingue;
flussi d'aria, semmai, sgomenti, soffianti -
paralarve spogliali d'anatomie inventate -
di parole, frasi, detti, forgiati lì, all'istante,
e scomposti, sguanciati, guernicati, scoppiati, irricostruibili, ininterpretabili
se non con l'emozione fulminante del caderci proprio dentro,
d'esservi parte e fatto, ORA -
sebbene sembrino arrivare da lontano,
da quell' "ieri" sanglottante, scuncecato.
Manichini in parata - balbettanti, semoventi,
autistici, tarpati,
sconvolti ed impazziti per la farsa/corsa:
sempre ritorno-stasi, stasi e ritorno, sempre:
dolce ed istesso rovello d'im-memoria.
In questo delirio, scenicamente, sta tutto quanto io credo debba essere, o possa avvicinarsi a ciò che si chiama Rivoluzione: una sorta di crollo, di perdita, di liquefazione, di ciò che siamo e ricordiamo, di tutto quello che ci mantiene a galla - sul totale Kaos della Vita - come Sapere, Utilità, Ragione, null'altro che Illusioni.
Alchemicamente, la Rivoluzione è una serie impressionante d'istantanee, fulminanti, teatralissime, nascite-rinascite-morti, che non approdano mai al definitivo, alla guerra o alla stasi perpetue, ma rispondono solo alla vocazione arcana, inestinguibile, del continuo rinnovarsi, trasformarsi, slittare. L'imprendibilità di queste forme, la loro incatturabilità, garantisce il senso profondo o l'in-senso profondo, come si vuole, dell'infrangersi di tutti i Codici, che è la Rivoluzione.
Enzo Moscato