unisa ITA  unisa ENG


Enzo Moscato - Il pensiero teatrante

Enzo Moscato

a cura di Isabella Selmin


Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.

E. Moscato

 

La Coincidentia Oppositorum

La Coincidentia Oppositorum
Il sublime e il fecale
Exempla theatrica:
Festa al celeste e nubile santuario - Aquarium Ardent


Quello che viene detto il mio teatro è un Corpo, prima ancora di essere un Pensiero. Un Corpo/Pensiero o un Pensiero/Corpo, a seconda che negli scritti scenici, nelle tante vite che ho provato a far palpitare-svilupparsi-morire nell'espace d'un soir, per tante soirs, sul mio scrittoio- palco, sulla mia tavola-stage, prevalga l'una o l'altra componente, la carne, il sangue, le viscere, o la riflessione, l'astratto, il concetto, il triste cogitare per forme-immagini-deliri-allucinazioni. . .
Ma separarli - avverto - tenerli distinti, al di là della mera esigenza pratico-analitica (come in queste righe), è il più grande arbitrio, la più grande sciocchezza e ingiustizia, di lettura e di metodo, che si possa fare nei loro confronti.
Da questo punto di vista, il mio specifico scenico, ciò che ho portato d'individuale tratto, all'interno del panorama teatrale italiano degli ultimi vent'anni, è decisamente anti-cartesiano.
La sostanza teatrale che mi perviene, che mi riguarda, è una e due allo stesso tempo, come la signora Morli, di pirandelliana memoria, non una e due inconciliabili e incomunicabili per sempre, come vorrebbe Descartes. Il Corpo e il Pensiero in me, in me-teatro, sono facce, risvolti, versanti, di una sola e unica Realtà o Sur-realtà o Ir-realtà, in quanto che anche della dogmatica, assoluta Realtà sono declinabili molteplici varianti, sfaccettature, crinali, solo che la si osservi o ci si disponga a viverla girandovi attorno, osservandola da tutte le angolature possibili. Se Corpo/Pensiero allora sono, in sostanza, in me, la stessa 'cosa', esprimentesi spinozianamente secondo 'modi' differenti, vorrà pur dire che da qualche parte, in qualche 'luogo', in qualche abscondita, magari invisibile, ma pur esistente, 'relatio', essi coincideranno.
Che sia la ghiandola pineale del suddetto, immaginifico Herr Carthesius (lo chiamavo così già ne La psychose paranoiaque parmi les Artistes, del 1983, a sottolineare nell'Herr il teutonico, nazi-filosofico dogmatismo pseudo-dubitante) o il 'noumeno' kantiano o lo spirito assoluto di Hegel o lo psicoide di cui farnetica Jung, alla ricerca di un trait d'union tra mondo fenomenico e metafisica, da qualche parte questa 'relatio', questa 'functio', questo connettivo intra e super partes-categorie, c'è, agisce, vive ed è da reperire, tangentare, esperire e, se possibile, praticare/conoscere, onde riferirne.
La coincidentia oppositorum - l'approdo al tratto comune di due (apparentemente) differenti realtà - è esattamente questo percorso che si fa praticando tutti i margini, i declivi, i confini, gli strapiombo che separano 'ufficialmente' le cose tra loro.
È dunque, in qualche modo, ragionando e vivendo 'per estremi', superando i limiti, che ci è dato, fortunosamente, d'intuire o percepire l'ossimoro, l'ibrido ontologico fondamentale, che è al cuore, oscuro e profondo, del creato e di noi tutti, misere e minime, infinitamente inermi e limitate, particelle che in esso si dibattono.
Solo che i creati, fenomenicamente, empiricamente, sono molti, così come molti sono i corpi e sono i pensieri - specchi, echi, rifrazioni di quell'unico-unificante Creato Primo, Creato Archetipo, che tutti - sbiadite sue copie, patetiche mimesi della sua irraggiungibile, inumana, perfezione - li costituisce. E, allora, un creato vale l'altro, per cominciare il viaggio estremo verso l'estremo della propria esperienza passio/conoscitiva. Io ho cominciato da me, naturalmente. E poi, da me, il passo successivo è stato quello di inserirmi nel creato particolar-soggettivo che naturalmente mi esprimeva, limitava, condizionava: la mia terra, il mio humus etnico-glossico-genetico: Napoli. E da Napoli, poi, - itinere per cerchi concentrici - spiraliformi - credo d'essermi avventurato per soglie, sconfini, slittamenti, frontiere, verso ciò che Napoli inglobava e dotava di geografico-topologico senso: l'Italia, l'Europa, i continenti, i tropici, la terra, la galassia tutta e via dicendo: pàrdon: cosmologando. . .
Ora, il viaggio in una 'cosa' per conoscerla e ri-dirla, ri-esprimerla, è un viaggio al limite - fino al limite - di tutto ciò che la costituisce. In primis, nella sua materia, anche quando questa ha, od ostenta, i modi dell'immateria. Come il pensiero. O l'energia. Ma qualunque sia il modo, l'ontologica maniera, con cui una cosa si presenta ai nostri sensi, essa possiede purtuttavia una Lingua ed è l'esperienza di questa, principalmente, che si fa, praticando il teatro. Per lingua, non intendo solo ciò che si avvale di parole, ovviamente, ma anche ciò che ci dice, senz'articolazione fonematica evidente, il corpo o il silenzio o il gesto, un'azione in quanto tale senza commento. L'esperienza della Lingua nel teatro è esperienza-limite proprio in questo senso: nel senso che non pratica solo il chiaramente udibile o articolabile ma anche il rovescio, il risvolto di medaglia, il doppio, di quest'ultimo: l'assenza, l'azzeramento del suono, che, proprio, in quanto tale, è inscindibile dall'immaginare o il rappresentarsi il suo gradiente, al massimo, il rumore; è questa la prima esperienza ossimorica, la prima coppia, di opposizioni o di congiunzioni, la prima sizigia (aut-aut/et-et) che ci viene incontro e che chiede di essere accolta, integrata, assimilata, e poi elaborata creativamente in modo personale. L'esperienza della Lingua a teatro è materica e astratta, corporea e intangibile, a-sensica e sensicissima allo stesso tempo. Non si può mai tentare di ri-darla, ri-ferirla, ri-esprimerla evidenziandone arbitrariamente solo un settore. L'uniteralità della Lingua è operazione stolta, arida, incompleta, disonesta. Come per Lingua non intendiamo solo il pezzetto di carne che ci sbatte tra le gote e il palato e che tra l'altro ci serve per plurali funzioni, mangiare bere assaporare baciare..., ma altresì una realtà complessissima che coingloba gli aspetti più sofisticati e stratosferici della fonologia o la retorica, così non si può a teatro ridurre la Lingua al suo parlato, al quantum battutale tra personaggi o figure veicolanti l'actio drammatica.
La Lingua è metafora e lettera, organo e non organo, luogo e non luogo contemporaneamente. Centro e margine. Densità e alone. Compattezza, solidità, perfino brutalità referenziale e al contempo suo sfragiamento, perdita, lutto, affondo. In quanto luogo evidenzia angoli, posture, orientamenti: nord/sud, est/ovest, baricentro/periferia; oppure aggettivazioni tipo: cerebrale/ventrale, spirituale/fecale, mediale/estremale; in quanto non luogo, gode a confondere, frammischiare, invertire qualsiasi indicazione concreta, ogni pertinenza/competenza che potrebbe caratterizzarla come un 'topos', topos tra topoi, innumerevoli. Mi è spesso accaduto di praticare drammaturgicamente, sia per iscritto che in scena, questo sconvolgimento d'assetti, questo capovolgimento totale di tratti, quest'ossimoro radicale - paradosso per cui una figura, una cosa, un concetto, è all'unisono, se stessa e il suo esatto contrario - cui il 'bios' stesso della Lingua, in tutta la sua polimorfia, allude. E di exempla potrei indicarne parecchi, ma penso bastino per tutti Festa al celeste e nubile santuario del 1984 (quindi pressoché all'inizio del mio percorso di ricerca) e Aquarium Ardent del 1997 (appena qualche anno fa). Esulando di necessità dalla narrazione del plot di questi due miei lavori - che però già nei titoli evidenziano reciprocamente una marcatura ossimorica: celeste/nubile (cioè sacro/profano e acquifero/ardente, vale a dire estasi/inferno) - soffermandoci solo sulle loro specifiche icone formali, direi che, nel primo caso stazionavo dalle parti del fecale, dell'universo infimo e basso - in un 'basso' napoletano, del resto, si snodava la vicenda delle tre pie ed ereticissime sorelle zitelle - dell'ars scrib o de-scribendi, mentre nel secondo, quasi icastironicamente rispetto al primo lavoro, spaziavo nel sublime, nello stratosferico del poetico di Rimbaud, ma i rispettivi tratti distintivi e topici, nonché organici, alto/basso, sublime/fecale, altro non erano, non sono, che inputs, stazioni di partenza, trampolini di lancio per tentare poi, nel percorso globale dell'opera, di coniugarli, di fonderli, alchemizzarli con tutti i loro eventuali antagonisti o contrari. Per la verità, in tutti i miei outcomes scenici, all'esterno come all'interno, macro o micro-scopicamente, a livello di mole o a livello di semplice molecola, tanto per esprimerci (al)chimicamente, ho cercato di evidenziare situazioni oppositive-coincidenti: ordini-disordini, linearità/ingarbugliamenti, sistematicità/eversioni, vale a dire naturali/innaturali tracciati in cui le contraddizioni, gli escludentisi a priori, collidano o si rovescino, aspramente o armonicamente, gli uni negli altri, per tendere a darci un 'tertium' da loro, una essenza/qualità precipua, che, al contempo, conserva e distorce, mantiene e sfigura, le eredità ricevute dalla coppia sottoposta a 'coniunctio', a innesto, a reazione.
Perché, forse, null'altro ci chiede l'opera al nero dell'essere in scena, anzi: l'essere-scena: porsi, riconoscersi, nominarsi, sapersi, per poi de-porsi, ir-riconoscersi, de-nominarsi; ignorarsi, in poche parole, trasformarsi, trasfigurarsi, tra-dirsi, dove quel 'dirsi' dopo il 'tra', non solo suggerisce (almeno) un'eclisse o una messa tra parentesi di ciò che viene pomposamente definito soggetto, quasi un suggerimento a mettersi tra e non sopra le righe, ma anche, se non soprattutto, "un saggio silenzio affollato di nude parole", per esprimere tutta la nostra inermità e impotenza dinanzi al mistero della vita, dell'esistenza (o della Sostanza), rispetto al ventaglio infinito delle sue possibilità (o dell'Apparire).

Enzo Moscato