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Enzo Moscato - Il pensiero teatrante

Enzo Moscato

a cura di Isabella Selmin


Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.

E. Moscato

 

D'un cantare sì rovente diaccio. Antropo-filosofica anatomia della canzone 'O sole mio

Quell'intricata foresta di luoghi comuni (canori) che è Napoli, solo apparentemente, quando apre l'ugola, snocciola risposte. In realtà, pone domande. Altre e nuove domande da sommare, inevase, a quelle per cui, solo in apparenza, è parsa dare delle risposte.
Queste domande, certe volte, sono frivole. Altre volte, grevi. Altre volte ancora, frivole e grevi insieme, fino a sfiorare una sorta di maieutica progressiva dell'ansia, di gradienti a salire d'angosce kierkegaardiane, sotto però le spoglie innocue di un sospiro prolungato, tremolante, un po' tonto, da innamorati, da amanti supposti divisi, distanti. E perciò sofferenti.
Prendiamo, per l'appunto, il luogo comune di tutti i luoghi comuni (canori) napoletani, il topos di tutti i topoi immaginabili nell'estetica del mélos, che è la famosissima 'O sole mio, cantata o canticchiata perfino dagli Eschimesi e dagli Indiani Nambikwara di Levi-Strauss, credo.
Il vero referente - il vero oggetto concreto - cui si rivolgono le convinte parole dell'altrettanto convinta voce che le emette - in quanto a risposta, in quanto a preciso significato, io tendo a supporre che resti inespresso, latente. Quantomeno eluso, ambiguo. Di chi, o di che, si parla "veramente", in questa canzone? Cosa si evoca, di preciso? Di cosa strilla (perché si strilla, dentro 'O sole mio, mica si canta; 'O sole mio, in tal senso, fa parte, a pieno titolo, di quel che si potrebbe definire, citando il filosofo Vattimo, il pensiero o il modo forte di cantare a Napoli, contrapposto al pensiero al modo cosiddetto debole di farlo, che ha, per lo più, la luna e non il sole, il femminile e non il maschile, lo yin e non lo yang, come suo proprio e fluttuante referente), di cosa strilla, si diceva, l'appassionata phoné di/tra i ghirigori vezzosi delle strofe? D''O sole mio? Del sole? Del dio greco Hélios? Del delfino egizio Hòrus? Del diuturno e imperituro accaldato faticar degli òmini sotto il "gigante sterminator Vesévo" (e non ci è dato, per inciso, conoscere condizione più inumana e meno ilare di questa, d'accordo con Leopardi)? O sta girando e rigirando, birichina, frittatine metaforiche, per esprimere, col sole, altro da quello, a cominciare dagli occhi, dalla vista, dell'amata, che, come santa Lucia, miracolata, sembra averne quattro, anziché due, di bulbi oculari (due nelle normali orbite, due sulla fronte), ovvero solo due (ma sulla fronte, non di lato all'apice del naso, il che la rende alquanto mostruosa, una specie di Polifemo in gonnella, gettando un riverbero, indubbiamente sinistro, sui gusti erotico-lombrosiani della strillante voce-amante) per finire alle frequenti metonimie, sineddochi e tropi dei versi tutti, che, scambiando cinicamente particolari anatomici della girl amata con dei veri e propri oggetti inanimati, a lei contigui (vetri, lastre, finestre, etc.), tendono pericolosamente a omologare essere e non essere, luce e oscurità, in una sorta di reificazione/pietrificazione cosmica (nonché soporifera) della vitalità della Natura, che pure all'inizio, con slancio, si voleva celebrare?
Ma, sia che sia, letteralmente un inno al sole - uno dei tanti, e neanche dei più belli, che si sono scritti e cantati qui - sia che si dia, col pretesto del sole, a un intrico di metafore e allusioni, via via allontanantisi ed eccentricizzantisi dal nucleo astronomico iniziale, la celebre canzone - inno alla vita, certo, però nata a cavallo di una morte-la fine del diciannovesimo secolo, dell'agonizzante, vecchio Ottocento - non c'è dubbio che si ponga come uno dei più oscuri - e, contraddittoriamente, radiosi - luoghi comuni in musica, in quanto ad afferrabilità di messaggio, come direbbero gli informatici, o di decodifica referenziale, per dirla coi semiologi e i linguisti. Essa è un monumento perpetuo (giacché si canta, si è cantata e si canterà anche per il terzo o quarto millennio, il che significa fino alla fine di quell'epìsteme-uomo, di cui cu parla Focault) alla classica figura retorica dell'ossìmoro - così è detta dai grammatologi, dagli iconologi, dai prossémici, e via complicando - vale a dire dell'ibrido espressivo, della fusione e contaminazione dei contrari, degli opposti (speranza adiacente a disillusione; cecità coabitante con tutte le diottrìe visive a posto; malinconia shakerata a sbalzi maniacali d'ilarismo e letizia francescana), esprimendo, per questa via, e in maniera più che lampante, lapalissiana direi, quasi tautologica, l'intima, nascosta essenza - l'aristotelica "ousìa" - della gente che l'ha pensata, che l'ha scritta e la gorgheggia. Tribù, o clan etnico, al cui appannaggio v'è "sostanzialmente" il chiaroscuro creaturale, la condizione-limite ontologica di chi è dentro eppur sta fuori, l'affacciarsi al mondo e il rinnegarlo, il nicciano, affermativo "sì", gomito a gomito col nirvanico "no" di Schopenhauer, ai soffi inanellanti e incoercibili e ritornanti (eternamente) dei cicli della Vita.
Il Napoletano è così, come le oscillazioni semantiche della canzone: un po' canta, un po' s'ammutola, un poco camorreggia, un po' è fifone, un po' pensa "profondo e metastorico" - tipo Vico -, un po' s'arrampica per vette cretinali e attualizzanti - tipo: fate voi: c'è solo l'imbarazzo della scelta -, e 'O sole mio, questo roboante atto in ugola delle presuntuosità e delle pretestuosità Napoli-elio-centriche, questo spaccare i timpani al resto del mondo per far sapere al mondo che l'unico, vero e grande e fallacissimo sole sta qui e solo qui - al massimo, sulla fronte (anomala) della nostra metà speculare-schiavizzata, la cosiddetta donna amata, o supposta tale - in verità, terrorizzato, pigolante, cerca di celare al mondo la propria mancanza assoluta di voce nel mondo (e non solo nel senso delle partiture musico-canore); la propria, costituzionale, afasia; la propria disarticolazione millenaria, in note e parole, a dispetto di tante note e parole; il proprio silenzio antropologico vastissimo, nel vastissimo, assordante e babelico (ma è tutta una finzione, un'apparenza, un trompe-l'oeil mercato universale delle gole.
Non ci sono risposte. L'abbiamo detto all'inizio. Ci sono al massimo solo domande, truccate da risposte. E forse nemmeno domande, ci sono, chissà?
Il mare non bagna Napoli, sentenziava, qualche decennio fa, Anna Maria Ortese. E non c'è ragione di pensare che il sole, invece, la illumini e riscaldi. E che la illumini e riscaldi in maniera così esclusiva ed esagerata. Come se fosse ai Napoletani padre carnale e agli altri patrigno o addirittura niente di parentale. Perché, allora, questo insistere ('O sole mio, 'O paese d''sole, Desiderio 'sole, Iesce sole, etc.), questo bleffare, questo millantare (è mio e non tuo, e, in questo mio, non c'è commisurabilità o covalenza col tuo, ammesso che tu ce l'abbia)? A che scopo? A che pro? E, poi, perché cantarlo, piuttosto che dirlo, semplicemente? Perché gridarlo (quasi sempre), piuttosto che sussurrarlo o bisbigliarlo o rantolarlo, come una confidenza indiscreta, e su cui si ha dubbi, malcertezze, piuttosto che sbracate sicumere? Temo che non siano risposte. Nemmeno qui. E, se le dessimo, sarebbero delle cripto-risposte, ulteriori domande con l'esclamativo al posto dell'interrogativo d'obbligo. E mi viene il dubbio che, in questo tipo d'interlocuzione, la forma del cantare sia preferita a quella del dire, dai Napoletani, perché, nel cantare, a differenza che nel dire, non si avverte, o si avverte sensibilmente di meno, la netta cesura della barretta affermativa a fine frase, così come la sospensione ansiosa della mezza volùta in alto del logo interrogante, dimodoché il vecchio trucco delle domande-passate per risposte, dei non sapere e i non conoscere spacciati per certezze ultra-fondate, possa funzionare e ingannare al meglio. Soprattutto lo straniero, il pellegrino, il turista. Chi non è di qui e non ha troppa dimestichezza con i "sik-sik-ismi", gli artifici magici dei fiati dati "in pectore et in capite", e più "in pectore" che "in capite" (o è il contrario? Boh!) per quel che attiene a 'O sole mio, cavallo di battaglia di pachidermici, sconfinati tenori, si sa, sin da quando è zompata su dallo spartito. Un po' meno però inganna il forestiero, sinonimo prezioso di straniero ma con qualcosa in più - un'intuitività, una sottigliezza, una capziosità interpretante sorprendente - rispetto alla figura tradi-classica dello "xenos". Il forestiero, innanzitutto, non è il visitatore, il viandante, qualunque. È - lo dice la parola - un abitatore o un praticante di foreste e, spesso e molto bene, lo è di foreste artificiali, di foreste di simboli, metafore, allegorie, analogie, nonché, per l'appunto, di luoghi comuni artistici, di "topoi". Pertanto, non tanto facilmente gli sfugge l'artificio, il trucco, l'illusione, ottica e sonora, delle mappe-territoriali, dei panorami, geografici ed umani, che, con occhio perspicace, va in giro per il mondo a smascherare, interrogare.
Inoltre, venendo ed essendo 'e fora - di fuori -, ulteriore fibrillazione di significato del proprio appellativo, può usare distacco, distanza e oggettività maggiori, rispetto all' "osservato", che non uno del luogo, un indigeno, quasi sempre catturato, fino all'ottusità, fino al corto circuito logico-sinaptico, dal proprio riflesso narcisistico, autoreferenziale (La Capria docet!) proiettato nell'oggetto, nella propria "cosa" etno-culturale.
Forestieri così, Napoli ne ha visti molti, da Stendhal a Sade, da Dickens a Rilke, da Melville a Goethe, da Apollinaire a Brecht, da Sartre alla Yourcenar, e la loro crudeltà giudicante, l'astutissima loro disillusione nel leggere e nel decodificare per il giusto verso - per il verso, cioè, del "fare il verso", del giocare, dell'apparire, dell'ingannare - le famigerate ammuine, le parate canore-musico-figurativo-sceniche dei Vesuviani, i Vesuviani stessi, nei secoli, non gliel'hanno mai perdonato. Perché, qui, "Chi non canta con me, peste lo colga!", si direbbe, parafrasando Amedeo Nazzari nella Cena delle beffe, di Benelli, è chiaro. Non puoi fare sgambetto allo sgambetto che ti fanno le Sirene, appostate sugli scogli, ed è chiaro-bis. Il gioco c'è perché bisogna starci, non solo smascherarlo, sennò che gioco è? Ed è chiaro-ter.
Il canto, qui, è in-canto. Imbabolamento. Imbeusimento. Sopraffazione magica. Fattura. Malocchio. Urlo. Languore. Convulsione. "Riscenziello". Morbo. Non occasione d'analisi tagliente, di faneroscopia chirurgica alla Peirce, di teorica dei Quattro Movimenti alla Fourier, di mistica escatologica interpellante alla Lodola. Ovvero, è ANCHE questo, ovvero ancora: PUÒ ESSERLO, ma solo dopo aver "di fatto" cantato, solo dopo essersi aperto e schiarito l'ugola per emettere note, solo dopo aver alzato il calice e, d'in mezzo a tutti gli altri comuni e avvinazzati convitati, intonare, stolidi "Brinneso alla salute! Alla mirosa mia ca s'è spusata! 'E cummarelle MEIE ca 'n'ce so' gghiute, m'hanno ditto ca pareva una pupata…", cosa che, evidentemente, quei forestieri, non hanno fatto, né prima, né dopo, né durante, le stesure dei loro affilatissimi rasoi sfiguranti i folclorici velari tutelanti i "sancta sanctorum" delle verità di qua, e perciò, forse, non sono stati perdonati e, ai loro savonarolismi intriganti, la tribù, o il clan etnico tutto, fa strafottentemente spallucce. Le cose, vedete, da queste parti, c'è poco da fare, obbediscono come a un loro sincretismo secolare di fondo, di ascendenza greco-bizantina e forse assirico-fenicia, chissà? Stanno strette, come dire?, a una loro eclettica tenuta d'insieme, forse pure caotica, confusionaria, perché no?, ma solida, però. Compatta. Di provata esperienza alle lacerazioni, agli strappi arbitrari. E, pertanto, non vanno mai separate le une dalle altre, non vanno mai disgiunte seguendo il filo rosso di una personale unilateralità, d'un proprio astigmatico convincimento.
Nella fattispecie, canto e disamina fredda, critica, del canto; coscienza e sventatezza; disposizione al gioco e sentire pungente del mentire, della "bufala", delle mitologie che vi stanno di sotto, devono restare dove stanno: vicine. Devono agire come agiscono: per contiguità. Come vicine e contigue esse si presentano nella classica figura retorica dell'ossimoro, nella giostra rutilante dei contrasti e delle opposizioni. E questo i Napoletani lo sanno benissimo. Lo sanno da tantissimo tempo, ormai, che possono anche fingere di non saperlo, di esserne all'oscuro, ed è per questo, forse, che, se cantano, quando cantano, sembrano farlo così, senza pensarci, "tanto pe ccantà"; e che, se pensano, quando pensano, non riescono a farlo senza quella tale ritmica mentale, quel musico-barocco "ragionar per strofe" che, da Tasso fino a Di Giacomo, nel bene e nel male, sembra connotarsi come un particolare tipo di logica, o d'illogica, fate voi, non dicente, non profferente, non enunciante propriamente, ma bensì suonante, ritmante, o, per stare a Saussure, significante.
Presa per questo verso, allora, 'O sole mio, è certo una canzone. Anzi, una canzonona, vista la mole notevole del suo successo nel mondo, doppiata da quella relativa ai suoi storici interpreti-strilloni, ma è anche, se non soprattutto, un paradigma generale di comportamento (oltre che un paradigma generale del modo di costruire canzoni).
È significazione generale di un certo ethos, direbbero i filosofi, rivelato da un suo indice estetico qualunque: un motivo, un'aria, un refrain. Spia minima, ma pur sempre spia, di un particolare modo di essere, pensare, sentire, di un certo popolo, o etnia, al mondo. È l'essenza trans-lucente dell'apparenza. Il profondo, il non-detto, il rimosso, sberluccicante intermittente dalle faglie delle superfici, dalle "quisquilie e pinzillacchere", dalle bagattelle, di ciò che sta sopra. O anche, si potrebbe dire, che è l'iperbole, l'esagerazione, l'eccesso, messi a copertura del vuoto, della mancanza, del deserto, del silenzio soggiacenti ai chiassosi, roboanti, dionisiaci, tarantell'orgiastici luoghi, da cui hanno preso origine. L'enorme sole giallo cantato, che dispendia privilegi unici di luce e di calore agli infreddoliti e scatarrosi suoi reclamatori, è, per così dire, l'inversione nel contrario, una formazione reattiva, una difesa-contro, l'enorme sole nero taciuto - il cupo astro silente della malinconia, della depressione, della desertificazione dell'anima, così bene descritto da Julia Kristeva in uno dei suoi essay semanalitici; così come l'amore di cui si sbraita, le lacrime e le gioie appassionate, di cui si dà conto (canto?), una per una, come si contano le gocce di un farmaco o un veleno da un farmacista o uno speziale, non sono, o sono solo apparentemente, figure d'equilibrio, segni di maniera, chiose del "giusto mezzo" e dell'aurea mediocritas erotica, ma inconsce giacenze maligne della follia, della pazzia, dell'amour fou, dello sconvolgimento irreversibile dei sensi e del senso - deriva loquendi et sentiendi, stando a sant'Agostino, sospesa a nessun "perché?", ad alcun "come mai?", ma solo a un "come", a un "così è", a un "amen" senza possibilità di riscatto, e siamo al Roland Barthes dell'insano discours amoureux offerto in fragmentibus.
In conclusione: freddo, gelo, disamore, follia, desertificazione, silenzio, impotenza, morte, dietro quello che appare indubbiamente il peana, o l'inno trionfale per eccellenza, alla vita, al calore, alla luce, all'amore, all'ottimismo, al positivismo, alle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità, e, in particolare, di quelle tribù che s'affacciano sul lato mediterraneo centro-nord?
Sì, certo, a mio avviso. Però cantati. Modulati o strillati, cesellati o sbraitati, come volete-volete, però cantati. Passati per l'ugola, sballottati su e giù e in lungo e in largo per la gola. E come se si fosse felici, masochisticamente beati, di questa illusoria inversione nel contrario. Perché questo è il punto: fingere e cantare. Distorcelo e gorgheggiarlo, stornellarlo, tutto questo. Che non è la stessa cosa, evidentemente, che pensarlo, rifletterlo, o dirlo, esprimerlo, semplicemente. È qui la Differenza, direbbe Derrida. Rispetto, a che, o a chi, non so dirlo esattamente. E nemmeno ci provo. Però è qui. È essa. E 'O sole mio, questo distratto niente che ci facciamo uscire, sibilando, dalle labbra, da più di venti lustri, ormai, nella sua ordinarietà conserva, arcanamente, una specie di mistero. Ha, forse, l'ambigua potenza - per chi sapesse interrogare la sua inermità - di rivelarcela un pochino, questa Differenza, di farcene intravedere nebulosamente i tratti. Oltretutto, a parte le tante (e possibili) significazioni che gli abbiamo, domanda su domanda, truccate da risposte, attribuite, chi ci dice che, spassionatamente, leggermente, canzonettisticamente, essa non ci avverta di un'imminente e mai sventata catastrofe ecologica pendente su di noi? Voi dite: "Quale?". Io dico, beh!, quella relativa a un astro gentile e moderatamente riscaldante da sempre, che, anno dopo anno, stagione su stagione, dal 1898 ad oggi, si prepara, forse, a trasformarsi nell'eterna, iperbolica permanenza di un sole che non riscalda più, ma brucia e inaridisce, senza misericordia, o, il che è suo omologo, nella diaccia, iper-polare stella spenta di un inverno scurissimo e senza termine apparente, fino alla fine dei nostri giorni, anzi: presumibilmente, dei loro, di quelli che verranno, sfortunatamente, dopo di noi.
Potrebbe voler dirci anche questo, senza voler sembrarlo, 'O sole mio, perché no? E, insomma, meditiamo, popoli, meditiamo! E, nel frattempo, cantiamo, se possiamo, cantiamo...

Enzo Moscato