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Manlio Santanelli - Il teatro

Manlio Santanelli

a cura di Barbara D'Andria

 

Beati i senza tetto perché vedranno il cielo.

M. Santanelli

Il chiodo fisso

Che cosa ci può essere di più rassicurante dell'immagine di una giovane madre colta nell'atto di cullare il proprio pargolo? Eppure, nel testo Il chiodo fisso, la sola a non essere rassicurata è proprio la donna che, seduta presso la culla del suo neonato, fa della follia l'ancora di salvezza necessaria alla propria solitudine che minaccia di soffocarla.
La scrittura di Santanelli, agile, fluida e surreale, procede in maniera graduale e inquietante sul filo teso di un delirio sempre più frenetico che inizia il suo folle percorso da elementi quotidiani, legati ad alcune specialità culinarie elencate in apertura dalla protagonista. Dopo i primi momenti di ineffabile piacere, durante i quali la madre antepone ai "più raffinati gusti del palato" l'incommensurabile gioia di stringere tra le braccia il frutto del proprio ventre, il suo pensiero entra in un gorgo di ipotesi sempre più angosciose, tutte all'insegna degli ostacoli che potranno frapporsi tra lei e quello da lei inteso come il godimento di una proprietà destinata, dalla terribile madre natura, a diventare sempre meno sua. Il futuro che apre le sue porte alla creatura inconsapevole del destino che in realtà l'attende, diviene oggetto di una fantasiosa manipolazione da parte della donna: uno dopo l'altro, gli incidenti che minacceranno di privarla della vicinanza e, quindi, del possesso del figlio, vengono affrontati e risolti in chiave paradossale. L'eventualità che un giorno l'attenzione del figlio possa essere distolta da lei e catturata da altri interessi quali lo sport, la discoteca, il poker con gli amici e la possibilità che egli trascorra molte ore fuori casa lasciandola sola, si trasforma in vero e proprio terrore che la porterà a mettere in atto una serie di brillanti espedienti per conservare un equilibrio familiare chiaramente illusorio.
La casa rappresenta per la donna un universo sicuro e protetto, in cui il figlio può cercare di inventarsi una vita senza dover tagliare il cordone ombelicale, una sorta di grembo materno all'interno del quale potrà crescere al riparo dai pericoli e dalle minacce che giungono dal mondo esterno. Ma l'effervescente mammina a tutto riesce a trovare un rimedio, a suo modo possibile, finché non si imbatte nell'amore, in "quell'amor che è palpito dell'universo", e contro il quale ogni arma, sia pur materna, è destinata ad uscirne spuntata. A poco a poco Manlio Santanelli sposta la situazione sotto la luce livida e inquietante del paradosso da cui emerge il fantasma, l'ossessione, la follia, che trasformano la scena in un dramma: la donna ricorre ad un gesto inconsulto nell'illusione di neutralizzare le future insidie del sesso e dell'amore.
Attraverso Il chiodo fisso Santanelli intende rendere esplicito il progressivo abbandono da parte della protagonista della realtà quotidiana interpretata come avversa e minacciosa. Il suo itinerario mentale, all'insegna dell'inutile fatica di rimanere nel perimetro della ragione, sfugge ad ogni controllo emotivo e razionale, per rivelare i profondi turbamenti psichici della donna che giungono a scatenare una follia latente e la conseguente distruzione di ciò che non può essere posseduto.
Il gioco linguistico, teso a cogliere le infinite ambiguità della mente, utilizza la chiave del grottesco e dell'umorismo nero per sottolineare, più sensibilmente, la distanza tra il reale e il paradossale, tra il pensiero razionale e la follia, che trasforma ogni insidia in un'ossessione e ogni esperienza in una frattura per l'anima.