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Autori - Annibale Ruccello

Annibale Ruccello

a cura di Carmela Lucia

 

E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!

A. Ruccello, Ferdinando

Ruccello e il teatro contemporaneo

Negli anni in cui Ruccello scrive le sue prime opere, tutta la sperimentazione non solo napoletana, ma anche della scena teatrale nazionale degli anni Settanta e Ottanta è attraversata da grandi cambiamenti. In effetti, nel contesto nazionale, il passaggio da un teatro ufficiale “di parola” al teatro definito “di ricerca” inizia intorno alla metà degli anni Sessanta, assestandosi definitivamente negli anni Settanta. In questa fase cruciale, estesa inoltre dall’Europa all’America, ai tradizionali schemi espressivi del teatro naturalistico, avvertiti in quegli anni dagli autori e dai registi come desueti e impraticabili, si vanno progressivamente sostituendo linguaggi nuovi, di marca più espressiva e moderna, e forme sperimentali di teatro, ottenute attraverso l’adozione di nuovi registri poetici e drammaturgici. Tra i modelli eversivi della scena europea del primo Novecento, si impongono in particolare il “Teatro dell’assurdo”, con autori come Ionesco, Beckett, Pinter, il “Teatro della crudeltà” di Artaud, Genet e il “Teatro politico” di Brecht. A tal proposito Matteo Palumbo parla di “rivoluzione” affermando quanto segue:

”dal teatro della rappresentazione (inteso etimologicamente come presentazione della ‘res’ di qualcosa, cioè, che persiste alla pratica scenica ed è indipendente dalla sua realtà materiale e concreta) e dal teatro della recitazione (pensato analogamente come citazione della ‘res’, e, dunque, come pura esecuzione verbale di un prodotto già arrivato a perfezione, e, perciò, pressoché compiuto nella sua dimensione testuale) si passa al teatro come evento, nella cui ‘performance’ e nella cui attualizzazione tutti gli elementi significanti del codice (appunto il corpo, la parola, la musica, le scene, le luci) sono pienamente assunti ed entrano in rapporto reciproco e necessario nella configurazione dello spettacolo” (cfr. M. Palumbo, Le “piccole tragedie minimali” di Annibale Ruccello, “Nord e Sud”, Un secolo di teatro napoletano (1900-2000), a cura di Davide Barba e Delia Morea, a. XLVII, n. 5, settembre-ottobre 2000, pp. 112-122; la citazione è a p. 112).

In realtà, in questa importante fase di cambiamento, la scrittura teatrale appare in generale segnata da una fervida fase di sperimentazione, per l’utilizzazione e la contaminazione di tutti gli elementi drammaturgici presenti nella messa in scena: la parola, il corpo, le luci, la musica appaiono di fatto tutti elementi che sulla scena si impongono senza alcun ordine di gerarchia, in una commistione che si presenta come simultanea e omogenea. Nel sovvertimento della tradizionale considerazione degli elementi costitutivi dello spettacolo, in virtù di un generale principio di contaminazione delle estetiche che ribalta i principi strutturali della tradizionale rappresentazione, tutti questi linguaggi risultano valorizzati soprattutto nelle performances in cui la sperimentazione si fa più ardita. In questo contesto di grande sperimentazione, nel confronto con tutti gli altri codici estetici, legati alla sfera dell’espressione, è soprattutto la parola che subisce una forte destabilizzazione, a partire dalla messa in crisi della sua primordiale funzione di veicolo determinante di senso, nonché di tradizionale egemonia nell’atto comunicativo e attraverso il conseguente recupero di una visionaria e autosignificante espressività fonetica. Su questi aspetti è opportuno citare l’analisi di Paolo Puppa:

”La parola addomesticata e ridimensionata entra insomma nello spazio del palcoscenico con gli stessi diritti, né più, né meno, degli altri oggetti. Tutto diventa pertanto segno e in questa umiltà, dove affiora un ricordo sfumato delle avanguardie storiche, concorrono vari fattori; l’ipertrofia registica specie nel periodo degli anni ’60 e ’70, la concomitante crisi della critica idealistica e l’introduzione delle discipline semiotiche nei nascenti istituti universitari, dedicati alle discipline dello spettacolo, il mercato delle immagini imposto dai media, le suggestioni propagate dalle utopie anarchiche e dal misticismo corporale dei gruppi alternativi (dal Living a Grotowski, da Scheckner a Barba), l’esplosione dei movimenti contestativi e l’inasprirsi delle lotte sociali intorno al ’68. Resistono ancora le opere scritte, in una ambigua, conflittuale adeguazione a questo controverso universo linguistico e culturale, ma spesso confinate nel limbo dei premi delle riviste specializzate, di iniziative promozionali dagli esiti incerti. E pur tuttavia il concetto di drammaturgia si espande inesorabilmente, lascia la pagina, sentita come ghetto letterario, e si affida alla ‘performance’ di volta in volta del mimo, del coreografo, del musico, del pittore, o addirittura del pubblico stesso” (Cfr. P. Puppa, Itinerari nella drammaturgia del Novecento, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. II, Il Novecento, Milano, Garzanti, 1987, pp. 713-864; la citazione è alle pp. 840-841).

In effetti, è soprattutto verso la metà degli anni Sessanta che inizia a imporsi una tendenza che si definisce in Italia del “teatro-immagine”, per cui la commistione e la libera associazione delle varie espressioni di tutte le arti che sulla scena prendono vita fanno sì che la rappresentazione teatrale sia liberata da ogni forma di dipendenza (intesa, in questo contesto, come sudditanza) testuale e contenutistica, in modo tale da restituire autonomia all’azione, anche nel momento culminante della performance (per questi aspetti, cfr. la vasta bibliografia, a partire dal primo e importante saggio di F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia. Materiali 1960-1976, 2 voll. Torino, Einaudi, 1977).
In questi anni, diventano noti i nomi di attori e registi che assurgeranno presto a simbolo della neo-avanguardia: si pensi a Carmelo Bene, Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Carlo Cecchi, Memè Perlini, i fratelli Vasilicò, Giuliano Scabia, Mario Ricci, Giancarlo Nanni, Quartucci, Caporossi, Giancarlo Sepe; o anche nomi di compagnie come, per esempio,“I magazzini criminali” o il “Gruppo della rocca” (si veda l’analisi di Delia Morea L’avanguardia teatrale e le nuove spettacolarità, “Nord e Sud”, cit., pp. 149-156).
In particolare, a Napoli, durante la fine degli anni Settanta si afferma nei teatri d’avanguardia Antonio Neiwiller, già collaboratore di Ettore Massarese che, insieme a Renato Carpentieri, Roberto Ferrante, Massimo Lanzetta, fonda la compagnia “Il teatro dei Mutamenti”, mettendo in scena, tra gli altri, lo spettacolo Berlin Dada, un omaggio al cabaret espressionista tedesco e al teatro di Brecht. Contemporaneamente a Caserta l’attore-regista Toni Servillo fonda il gruppo sperimentale “Teatro Studio”. Inoltre è anche con la drammaturgia di Mario Martone che il teatro napoletano si apre al confronto con l’avanguardia europea e alla contaminazione dei linguaggi più eterogenei, fino alle tecniche e ai modi espressivi propri della comunicazione televisiva: basti pensare alle ardite soluzioni drammaturgiche di Tango glaciale o anche all’elaborazione strutturale dell’ultimo spettacolo di “Falso Movimento”, Ritorno ad Alphaville, una complessa texture drammaturgica, filtrata attraverso il modello del regista Jean-Luc Godard. (Cfr. anche il quadro di riferimento di Massimo Marino Il teatro degli anni Ottanta, in Annibale Ruccello e il teatro nel secondo Novecento, a cura di P. Sabbatino, Napoli, Edizioni scientifiche Italiane, 2009, pp. 143-152).
In questo contesto così particolare della scena italiana degli anni Ottanta agiscono diverse forze e dinamiche anche spesso non convergenti: da una parte operano un forte influsso sulla scena il teatro europeo e soprattutto le sperimentazioni dei teatri d’avanguardia, con personalità davvero emblematiche, come Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Leo de Berardinis, capaci di imporre dei modelli di riferimento imprescindibili, per la ricerca sulla voce e sulla semiotica del corpo attoriale e tali da sconvolgere i tradizionali paradigmi degli statuti teatrali (anticipando così anche il fenomeno dei solisti sulla scena, tipico del teatro di narrazione di Baliani, Celestini, Paolini e altri).
A tal proposito un’importante testimonianza ci viene da Enrico Fiore nel saggio intitolato Il rito, l’esilio e la peste. Percorsi nel nuovo teatro napoletano: Manlio Santanelli, Annibale Ruccello, Enzo Moscato (Milano, Ubulibri, 2002, pp. 12-13). Qui si analizzano le relazioni che legano il teatro di Ruccello alle voci della cultura contemporanea: in particolare Fiore parla di tre spettacoli, rispettivamente di Antonio Neiwiller, Mario Martone e Toni Servillo, che si assumono come esempi paradigmatici di un rinnovamento in atto nel teatro, soprattutto per l’uso di particolari cifre stilistiche e per la contaminazione di diversi codici, che si devono alle loro sperimentazioni.
Nel settembre del ’79, appena pochi mesi dopo la morte di Eduardo, Antonio Neiwiller e il “Teatro dei Mutamenti” rappresenta La parola interdetta, in cui la scena del rosario della Gatta Cenerentola di Roberto De Simone viene sostituita con la celebre “litania” del dadaista Soupault. Nel novembre del ’79, N.Y: New York, di Mario Martone, si impone all’attenzione del grande pubblico per l’originalità dei linguaggi e l’articolazione della costruzione dei diversi linguaggi usati, in cui, attraverso i ritmi del thrilling, si realizza una contaminazione tra i meccanismi rappresentativi del teatro e quelli del cinema. Nel novembre dell’80 al “Sancarluccio”, infine, Toni Servillo con il “Teatro Studio di Caserta” mette in scena Propaganda 2 definito uno “spettacolo al vinile”, in cui l’enfatizzazione della musica e l’esasperazione del linguaggio del corpo operano una destabilizzazione della parola, proprio attraverso l’esaltazione di quella vis corporis che sacrificava il testo e la scrittura. Ognuno di questi spettacoli, che Fiore segnala per l’originalità dei temi e dei registri stilistici, così come per il montaggio dei diversi aspetti comunicativi che vi interagiscono, dà prova della singolare modernità della sperimentazione napoletana, a cui, del resto, fa riferimento lo stesso Ruccello, nel corso della nota intervista rilasciata su “Sipario”:

”La nostra drammaturgia è nuova perché non parte, non si collega alla generazione precedente dei drammaturghi italiani, quelli degli anni ’50. Scaturisce invece assai più dal lavoro degli anni ’60 e ’70, più dalla sperimentazione che dalla drammaturgia tradizionale. Insomma, da una generazione che ha fatto una drammaturgia di regia più che di scrittura scenica, di testo: una drammaturgia sui corpi. Noi, come corrente, veniamo da quest’universo, il nostro punto di riferimento è la vecchia avanguardia del ’60, con tutte le sue ramificazioni. E per noi, che ci consideriamo in qualche modo l’avanguardia degli anni ’80, c’erano due strade: una era quella intrapresa – fino a un certo punto – dalla ‘Nuova Spettacolarità’ che portava alle sue estreme conseguenze il discorso su un tipo di teatro immagine e di suoni. La seconda era quella del ritorno a una narrazione – anche questo fino a un certo punto. Da qui la giustificazione del termine ‘drammaturgia’. Ma noi, negli anni ’80, abbiamo anche il problema di essere competitivi con il cinema e la televisione che inondano lo spettatore di storie. Le nostre devono allora essere ‘diverse’, avere qualcosa che il cinema e la televisione che inondano lo spettatore di storie. Le nostre devono allora essere ‘diverse’, avere qualcosa che il cinema e la televisione non hanno” (G. G. e L. G., Una drammaturgia sui corpi, “Sipario”, cit., p. 71-72).

Come evidenziano anche queste riflessioni critiche, Ruccello ha saputo cogliere con estrema acutezza tutte le trasformazioni in atto nella scena contemporanea. Infatti rispetto all’avanguardia degli anni Ottanta, che estende le sue radici nella sperimentazione degli anni Sessanta e Settanta, è riuscito anche a rilevare l’aspetto fondamentale della contaminazione tra i linguaggi del cinema e del teatro. L’imitazione del montaggio e delle tecniche filmiche (in particolare del genere da lui privilegiato, il thrilling), con primi piani ed ellissi, dissolvenze e mutamenti di luoghi scenici, si infittiscono in particolare nelle “tumultuose sarabande erotiche di Giuseppe Patroni Griffi”, un altro autore fondamentale a cui Ruccello si ispira. In particolare, il motivo del travestitismo enfatizzato spesso in Patroni Griffi (si pensi a Persone naturali e strafottenti del 1974) si ripete non solo nel teatro di Ruccello (si pensi a Le cinque rose di Jennifer) ma anche in quello di Moscato.