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Roberto Bracco - Articoli vari

Roberto Bracco

a cura di Marilena Gentile e Samanta Scidone

 

Il teatro di prosa - non par vero - è un po'... come l'Amore, quanto più si discorre d'Amore, tanto meno l'Amore finisce.

R. Bracco

Ermete Zacconi

Quando si pensa alla monumentale persona di Tommaso Salvini, il maggiore artista drammatico italiano dei tempi nostri, e alla sua gran voce melodicamente sonora con la quale, nonostante l'approssimarsi della settantina, può ancora, sempre che voglia, ammaliare un pubblico di qualunque parte del mondo, i grandi successi di Ermete Zacconi sembrano uno dei tanti casi di enigmatica contraddizione nei rapporti dell'umanità. Se Tommaso Salvini è il sole della scena nostra, l'incipiente celebrità di Ermete Zacconi, di quest'uomo a cui la natura non ha concesso una distinguibile imponenza vocale, una perspicua entità plastica, nessuna qualità appariscente, dimostra che la luce del sole non è un monopolio del sole. Osservando i suoi connotati, si dura fatica a rievocare i personaggi ch'egli incarna con tanta possanza di conquista da prendere lo spettatore delle poltrone e quello del loggione, lo spettatore frivolo e quello pensoso, lo studioso del teatro e il più rozzo degli incompetenti. Guardatelo per la via - se non lo confondete con gli altri viandanti -: guardatelo rasentare il muro col passo piuttosto veloce, con le sue giacche ineleganti, coi suoi baffetti biondicci e spioventi, con quella sua aria timida e imbarazzata; e voi penserete che egli sia un modesto impiegatuccio che corra a sgobbare nel suo piccolo ufficio o un paziente maestro di scuola elementare a ottanta lire il mese, e non certo vi balenerà il dubbio ch'egli porti in giro, in quella giacca e in quei baffetti e in quella timidità, l'interprete dell'infamia bestiale di Nikita, della fatale morbosità di Osvaldo, della vigoria audace di Bito gladiatore, della follia vanagloriosa e spietatamente tirannica di Nerone...

Ebbene, la sua persona, tale qual è, ben simboleggia l'inizio della sua carriera. Egli, che ha nel corpo quasi esile, negli occhi chiari e mansueti, nella voce punto rintronante, nella testa scialba e precocemente calva, tutta la mitezza originaria del suo carattere, non è, difatti, un prodotto dell'auto réclame e dell'auto grancassa, non è un seduttore di giornalisti e di assidui frequentatori del dietroscena, abituati alle cordiali e gustose confidenze del camerino non è un raccontatore prezioso nelle brigate allegre, non è neppure un nevrotico interessante, atteggiato a vittima dell'arte consumatrice. Con l'amico è scarsamente espansivo; col conoscente è freddo, è angoloso, è arido; con l'ammiratore è appena sorridente d'un sorriso da collegiale lodato dal maestro in cospetto del babbo e della mamma. Tutte queste cose non agevolano il compito d'un attore, non gli preparano il terreno, non impongono l'ammirazione e non affrettano il conseguimento della meta. Pare quasi che la stessa insignificanza della sua persona non gli abbia consentito di giocar di gomiti per aprirsi un solco tra la folla; e anche pare che, in compenso, la folla lo abbia lasciato passare oltre soltanto perché egli era così inconsistente e innocuo che nessuno credeva d'esserne incomodato.

Sì, quella sua persona dai connotati comuni e sfuggenti, quella persona che non ha nulla di speciale e di visibilissimo e che non reca alcuna impronta di supremazia né fisica né spirituale, è simile ai mezzi con cui egli ha perfezionata la sua arte. Io voglio dire, cioè, che la sua vita laboriosa non ha mai avuto esuberanze ingombranti e la sua recitazione non ha mai dilatato un personaggio per attirare maggiormente l'attenzione degli spettatori, né per varcare - si noti bene -i limiti assegnati a quel personaggio, umanamente e scenicamente. Lo studio del Vero si è sempre compiuto da lui come in un laboratorio chiuso, senza l'ostentazione di far cosa non mai fatta; e la semplicità del risultato, dovuto a una intima e graduale elaborazione, nelle prime fasi della sua carriera, ha talvolta perfino generato il sospetto d'una infrazione a quelle leggi della prospettiva teatrale per le quali, come in un quadro pittorico, i personaggi del primo piano hanno contorni più larghi e più precisi e colori più spiccati. Quest'odio giurato alla ridondanza, all' iperbole, al gonfiamento, a ogni sorta di eccesso, costituisce l'assonanza tra la sua figura d'uomo e la sua figura d'artista. E così egli, accontentandosi dapprima dell'indifferenza del pubblico, poi degl'incoraggiamenti di chi cominciava a notarlo tra l'altrui mediocrità presuntuosa, poi dalla fiducia di pochi novelli critici solitari - e mi si permetta di vantarmi d'appartenere alla breve schiera -, è andato avanti avanti con l'atteggiamento di chi resta indietro. Sicché, la semplicità, l'economia degli effetti, lo studio del Vero visto da vicino, la completa noncuranza del vecchio e glorioso codice della ribalta hanno formata la base su cui egli ha eretto l'edificio del suo repertorio. Ed è chiaro che, se nelle parti non cariche di drammaticità emozionante e di eccezionalità fisiologiche o psicologiche, se nelle parti, dico, intessuto di dialogo fluente scintillante arguto dilettoso, come quelle dell'Ami des femmes e d'Olivier de Jalin nel Demi-monde, egli non fosse riuscito a essere esternamente sobrio e semplice, a lui sarebbe mancata la misura interpretando le parti che sono in sé stesse complicate e che richiedono un ricco e impressionante complesso d'intenzioni e di estrinsecazioni. In altri termini, se egli avesse voluto scuotere violentemente il pubblico sempre, anche quando il personaggio e la situazione non tendevano che a destare una commozione superficiale, non avrebbe potuto egli stesso tentare, per esempio, le interpretazioni di Nikita nella Potenza delle tenebre e di Osvaldo negli Spettri senza rompere i confini della estetica e senza trascendere in esagerazioni mostruose e traditrici della Verità. Qualunque attore, che non abbia la scienza della limitazione degli effetti e non abbia il coraggio di non curare l'avidità collettiva del pubblico, corre il rischio di essere un Osvaldo ridicolo e un Nikita sinistramente goffo.

Insisto nel ricordare questi due personaggi perché in essi la personalità di Zacconi si è più fortemente e più distintamente delineata e perché dalla sua personalità sono essi ormai inscindibili. Non s'immagina più Osvaldo e Nikita senza Zacconi. Scartando, eliminando tutto il ciarpame delle risorse fornite anche ad attori non ignobili dalle esperienze del palcoscenico, Ermete Zacconi cava esclusivamente dalla verità del personaggio ibseniano le ragioni e le risultanze artistiche della rappresentazione e rivela sulla scena la tragedia dello sfacelo progrediente dell'anima e del corpo di Osvaldo, quello sfacelo terribile spaventevole e straziante che dovette far fremere Ibsen quando contemplò l'atavismo fatale per cui il figliuolo sconta, nella carne, nel cervello, i vizi e i peccati del padre.

I napoletani, che pur sanno così bene, così rumorosamente applaudire o fischiare, non fiatarono, non si mossero nel vedere scendere il sipario sull'ultimo atto degli Spettri. L'estremo balbettio con cui Osvaldo aveva chiesto il Sole alla mamma pietosa -per averne invece le polverine ferali che gli avrebbero dato il soccorso del Nulla -, uscendo dalle labbra di Zacconi, s'era diffuso nella sala come un brivido di morte. Tutti avevano sentito quel brivido, quasi convinti, per un momento, d'essere uniti, d'essere stretti a quell'organismo devastato. Un silenzio lugubre durò parecchi istanti; e solo quando gli spettatori potettero intendere d'essere distaccati dalla larva che il sipario nascondeva, risorse in loro il discernimento della finzione scenica e proruppe l'applauso dell'ammirazione.

E osserviamolo, ora, un po' nel vasto quadro di Leone Tolstoj: La potenza delle tenebre. Ermete Zacconi, personificandone il protagonista Nikita, intende e riproduce, mediante il suo metodo obiettivo, tutto l'assoluto obiettivismo che , - secondo me è in quelle scene tremende. Leone Tolstoj non ha voluto plasmare, com'è stato detto, un'idea filosofica, un trionfo ideale delle sue teorie. Bensì, studiando questa "potenza delle tenebre", questa potenza dell'ignoranza che incombe sulla povera vita inanime delle sconfinate e desolate steppe della Russia, dove la brutalità, fecondata dalle abitudini e dalle tradizioni di schiavitù resta sommersa nel buio, ha voluto dire:

- Questo è, questo accade. Piangete sulla miseria umana, se sapete piangere, e soccorrete l'umanità, se sapete soccorrerla. -

Nella interpretazione del tipo di Nikita, il quale, dopo aver commesso ogni specie di delitti, sente finalmente il bisogno di confessarsi a voce alta con in mano un crocifisso, Ermete Zacconi serba in proiezione l'atteggiamento stesso dell'autore. Se egli avesse presentata la grandiosità della nefandezza e del rimorso di Macbeth, avrebbe dilatata, per gli spettatori, l'importanza della sua interpretazione, ma avrebbe tradito l'austero obiettivismo tolstoiano. In Macbeth c 'è il sopravvento imperioso dello spirito su tutto ciò che la creazione ha di materiale, ed ecco il rimorso sorgere e predominare in tutta la sua magnifica implacabilità. Il concetto di Pascal - che il rimorso sia una incoerente superfetazione dello spirito - è lì, psicologicamente, esattissimo. Ma la tarda assunzione della coscienza di Nikita, dell'uomo, cioè, che in Ermete Zacconi vive alla ribalta, debole, floscio, senza iniziativa, senza volontà, senza energia fisica, senza energia mentale, senza alcun nucleo propulsore, non è che il riverbero d'un po' di luce mistica trasmessa, a un tratto, da una fiammella che è profondata in una fitta oscurità. Ermete Zacconi è avvolto nel bieco mistero di quella miserabile bestialità umana, di quel cretinismo delinquente, di quell'abbietta fiacchezza dissolvente che non una nuova vigoria spirituale né un alato risveglio dell'anima, ma un'evoluzione della stessa fiacchezza e un confuso ignorante misticismo spingono al pentimento e alla confessione. Quando a Nikita sembra di sentir scricchiolare le ossicine del neonato che egli ha seppellito vivo, Ermete Zacconi fa comprendere perfettamente come in quell'uomo terrorizzato, assalito dal raccapriccio, ci sia la bestia vile e come la sensazione di lui, dilaniatrice, non si elevi alla dignità psicologica del rimorso. E quando, stanco, esausto, annientato, Nikita si confessa, Ermete Zacconi, sacrificando tutti i grandi effetti che potrebbe trarre dall'atto solenne del confessarsi, resta misero nel pentimento come fu nel delitto. Indimenticabile nel momento in cui Nikita tende gli orecchi per udire lo scricchiolio delle ossicine; indimenticabile nel momento in cui la bestia vile fugge per sottrarsi alla orrenda sensazione; indimenticabile nel momento in cui la bestia abbattuta, senza slancio, senza eroismo, si umilia nella confessione e nel nebuloso misticismo estraneo alla coscienza; indimenticabile in tutta quella verità profondamente rattristante che è l'interpretazione diretta e concisa dell'obiettivismo di Tolstoj. L'arte di Ermete Zacconi non aggiunge colori a colori, linee a linee, non si gonfia di commenti, non porta il dramma russo sopra una cattedra, e si limita a ripetere insieme con l'autore:

- Questo accade, questo è.

Ho parlato di due speciali interpretazioni del più giovane dei nostri grandi artisti della scena perché in esse, ripeto, il suo metodo e le sue qualità si compendiano e armonizzano. E le due interpretazioni egli ha talmente perfezionate, talmente sentito e così gli si sono connesse ai connotati fisici che solo una costante forza di volontà può renderlo capace di emancipare la voce da alcune modulazioni spasmodiche dei due personaggi e può affrancare le sue braccia e le sue gambe, dai convellimenti e dal tremito dell'uno e dell'altro. La forza di volontà scaccia via, per fortuna, Osvaldo e Nikita. Sarebbe allarmante che quei due degenerati s'impadronissero di tutto il repertorio di Zacconi. Liberandosi ... dai mali atavici e dal cretinismo delinquente, egli ci presenta, con un vivo rilievo di realtà assoluta, la delinquenza quasi geniale mista di fastosa megalomania del Nerone di Pietro Cossa, la dolorante pietosa umiltà di Vassilij Siemiònyc nel Pane altrui di Ivan Turghèniev, il significato morale e sociale di altri personaggi esotici, la dialettica ardimentosa che Giovanni Bovio presta a Giuda nel gran quadro del Cristo alla festa di Purim per infirmare, assai meno di quanto spera l'insigne pensatore, la fede ond'è stata conquistata la Maddalena; ci rivela con accenti indimenticabili l'odio e l'impeto di vendetta di Luigi Palmieri nel mio breve dramma Maschere , soffocati nella finzione che deve salvare l'onore della moglie di lui, adultera e suicida, al cospetto della figliuola; compone per il palcoscenico in evidenza di vita i più vari e interessanti profili psicologici di personaggi appartenenti a tutto il teatro internazionale dì ieri e d'oggi, purché non foggiati più dal mestiere che dall'arte. Il repertorio d'Ermete Zacconi va man mano estendendosi. Una certa riluttanza egli mostra ad affrontare la tragedia classica o quella shakespeariana. E non è difficile intenderne il perché. La tradizione ha già fissate per entrambe le linee molto teatrali, a cui non è estraneo ciò che è o sembra, e si chiama, accademico. Ed egli, completamente libero da ciò che è o sembra accademico, non può non urtare in gravi ostacoli. In Italia, è vero, la tendenza realistica nell'incarnare quei personaggi non è novissima. Gustavo Modena - a quanto ci hanno raccontato i cronisti del suo tempo - fu un precursore di questa tendenza, legittimata dalla mancanza d'un Accademia scenica. Ma, intanto, non è senza pericoli l'abolizione di quella nobile larghezza tradizionale che pare ingenita anche negli umanissimi protagonisti di Shakespeare. Essi hanno proporzioni gigantesche. Essi rappresentano l'umanità vista attraverso una lente d'ingrandimento. Conciliare, nella rappresentazione, la necessaria ampiezza con tutti i particolari del vero è certamente una molto ardua impresa. Ermete Zacconi non è il solo attore italiano moderno che tenti una sapiente conciliazione; ma egli, più radicale nei suoi propositi e più evidente nei suoi risultati, va suscitando le maggiori discussioni. Senza dubbio, nessuno ha meglio di lui le facoltà atte a riuscire. Nella parte di Giuda e in quella di Nerone - per citarne due - ha già dato un saggio vittorioso di recitazione ampia e insieme realistica. Nondimeno, quale che sia l'altezza che egli saprà raggiungere nelle opere di scultoria imponenza, ci sarà sempre qualche spettatore codino e cocciuto che, in alcuni momenti, come un creditore inesorabile, gli chiederà, invano, la voce grossa e reboante, il passo smisurato, il sobbalzo e lo squasso del torace erculeo e il gesto che riempia la scena.

E ora voi mi chiedete l'aneddoto, l'episodio, l'indiscrezione, il fatterello piccante. E io non so come accontentarvi.

Il neo celebre attore italiano, dal punto di vista della curiosità, è negativo. Nulla di ciò che desiderate posso ammannirvi. L'artista è preziosissimo ed è degno d'una studiosa attenzione quotidiana; ma l' uomo farebbe morire di crepacuore il più fantasioso dei cronisti, il più americano o il più europeo dei reporters! Ermete Zacconi ha una fida compagna e un fido cagnolino, mangia poco, beve poco, passeggia poco, parla poco, spende poco, ride poco, si diverte poco, si mostra poco; e lavora molto. Di lui, uomo, questo so dirvi, e, null'altro.