Manlio Santanelli
a cura di Barbara Barone
Beati i senza tetto perché vedranno il cielo.
M. Santanelli
a cura di Barbara Barone
Beati i senza tetto perché vedranno il cielo.
M. Santanelli
Sono un autore malato, sono un autore meschino, tendo al comico per disposizione naturale, ereditaria oserei dire se avessi meno rispetto per i miei avi. Sono, di conseguenza votato alla disperazione. Non mi ero mai fatto soverchie illusioni, del resto. Il bisogno che i miei simili hanno di ridere (e io con loro) mi appare come la spia più inquietante del malessere che attanaglia il genere umano, quel genere umano al quale, ancorché con alterne vicende, continuo ad appartenere. A tal proposito mi chiedo con insistenza, e insisto nel non sapermi rispondere: "Che necessità avremmo di cogliere il lato ridicolo dell'esistenza, di non poter fare a meno di interpretarla nella maniera più scherzosa e irresponsabile, se fossimo sereni, appagati, soddisfatti di noi come del prossimo nostro?"
Quel prossimo che, ad onta degli sforzi che facciamo, non riusciamo mai ad amare come noi stessi. Ed è bene per lui, per il prossimo, intendo. Gli viene così risparmiato un trattamento che di poco si discosta dalla tortura. Perché - e qui non posso evitare una scivolata nell'autobiografia - il sottoscritto ha amato il suo prossimo, lo ha amato né più né meno di se stesso. Per qualche anno, o giù di lì. Di colpo ha smesso di farlo il giorno in cui si è accorto con raccapriccio di confondere l'amore di se stesso con l'amor proprio. Amare il prossimo di amor proprio mi si è rivelata all'istante una mostruosità senza pari! Tornando al teatro comico, la mia disperazione è cresciuta sensibilmente quando mi è stato spiegato che il riso è un atteggiamento attraverso il quale si esprime un'intensa carica di aggressività. Il riso, infatti, comporta un'inevitabile movimento delle labbra, movimento che a sua volta induce a mostrare i denti. E dal mostrare al digrignare i denti il passo, come possono misurare tutti, è breve.
Chi mi ha detto tutte queste belle cose? Desmond Morris, l'antropologo inglese. Sempre lui, maledizione! Già mi aveva turbato una volta, rivelandomi la natura tribale del calcio, sport che simulerebbe la caccia, con la rete avversaria a far da preda e il pallone a far da freccia. Ora mi è venuto a rovinare la festa un'altra volta!... Perché - parliamoci chiaro - chi se la sente di consegnare a degli attori, solitamente amici, un testo che li esponga al digrigno della platea, che magari non ha letto Desmond Morris, ma comunque ripaga le fatiche di quei solerti professionisti con lo stesso segno di gradimento della iena o di animali consimili, e all'uscita del teatro magari si attarda perfino a dichiarare: "Quanto ci siamo divertiti stasera!", laddove sarebbe più corretto ammettere: "Quanta rabbia siamo stati capaci di tirar fuori stasera!". No, si dica quel che si vuole, ma chi mi ha seguito fino a qui non può non convenire con me che nei paesi civili il teatro comico andrebbe perseguito in astratto e vietato in concreto come una delle più perniciose forme di istigazione alla violenza.
E così ho deciso: non scrivo più. Come campo? Facendo il regista. Il regista della scusa. Per essere più chiari collaboro con le compagnie che stanno per debuttare. La sera prima del debutto, a notte inoltrata, quando il regista ufficiale ha finito di impostare i ringraziamenti, arrivo io e gli imposto le scuse. Ho sempre pensato che una compagnia onesta, accanto ai ringraziamenti, dovrebbe tenere sempre pronte le scuse. Che per grandi linee assomigliano a quelli. Se ne discostano soltanto nell'ordine delle uscite, che nelle scuse risulta ovviamente capovolto, vale a dire dal più responsabile dell'insuccesso a colui che è meno colpevole di tutti. Dunque, il primo a venire al proscenio è l'autore, quando esiste ed è a portata di mano. E' all'autore che tocca andare a tirare fuori dalle quinte il regista, vincendone la resistenza a mostrarsi. Seguono in successione, offrendosi così al calante ludibrio del pubblico, lo scenografo, il costumista, il primo attore, l'antagonista, i comprimari, le comparse... Fino al pompiere di servizio, che a quel punto si becca l'unico applauso della serata. Perché, alla fine di uno spettacolo all'insegna del disastro, non c'è chi non sia disposto a tributare il meritato riconoscimento a colui che, se non altro, ha scongiurato il pericolo che si finisse anche carbonizzati.
Regista delle scuse: ecco il mio nuovo mestiere. Ma temo che non resisterò a lungo lontano dallo scrittoio. Già vagheggio un progetto di riscrittura di tutti i grandi classici dell'antichità, nessuno escluso. Se poi mi avanzerà del tempo mi spingerò fino all'alto Medioevo. Ritengo, a tal proposito, che la vera linfa della drammaturgia contemporanea sia questa smania di rifare le bucce ai sommi autori del passato. Riscrivere l'Edipo, l'Antigone, l'Elettra... ci può essere ebbrezza maggiore? Io esordirò con un Corifeo. E sarà un evento, ci potete giurare. Tra l'altro, non capisco come mai i miei colleghi si gettano avidi sugli altri nomi, snobbando un eroe come Corifeo, presente in quasi, se non in tutti quei miti. Bah!...
Del resto non sono nuovo a simili esperienze. Anche io, agli inizi non seppi resistere alla tentazione di cimentarmi con il mondo classico. Un mio testo giovanile, intitolato Ti pare questa l'ora di tornare dalla guerra? aveva per protagonista nientemeno che Ulisse (il titolo è tratto da una delle battute più drammatiche di Penelope). In quel tempo affrontavo il tema del riconoscimento, ovvero l'ansia dell'individuo di farsi riconoscere dalla massa. In parole povere, mettevo in scena le turbe di Ulisse che, tornato ad Itaca, adotta la linea strategica di risultare sconosciuto ai Proci, ma nello stesso tempo il suo sconcerto di essere trattato come uno qualunque, lui, che nel frattempo è diventato l'eroe più noto dell'Occidente.
Ricordo che mi spaccai il cervello su questo nodo drammaturgico, condizionato tra l'altro dall'esigenza di giocare a carte scoperte, per impedire al lettore-spettatore di afferrare all'istante il senso dell'operazione, e tenere sempre accesa la curiosità in vista della rivelazione finale. Finché non tagliai quel nodo con una soluzione di cui ancora oggi vado legittimamente fiero: cambiai il protagonista, che da Ulisse diventò Saverio. Ne derivò che i Proci non lo riconoscevano per il semplice fatto che non l'avevano mai conosciuto. E con i Proci, tutti gli altri. Lui stesso, poi, non essendo più l'arcinoto Ulisse, non aveva nessuna ragione di adombrarsi ad ogni mancato riconoscimento. E il lettore, infine, rimase con la curiosità inappagata di sapere chi mai fosse quel benedetto Saverio, e che cosa ci facesse nell'Odissea. Bei tempi! O forse né belli, né brutti, forse soltanto passabili e ora canditi dalla memoria. Di gran lunga, tuttavia, migliori, se paragonati a quelli che sarebbero venuti da lì a poco. E mi riferisco alla severa e cupa era teatrale che può essere agevolmente definita come "l'impero del sottotesto". Al solo pensiero di quel periodo, che ahi tutti noi!, si protrasse per svariati anni, ancora oggi mi copro di un leggero sudore freddo. Ho ben vivo nella mente l'imbarazzo mortale che provavo davanti a un attore, o un regista, o finanche un produttore che, letto il mio copione di turno, puntualmente mi diceva: "Come testo non è brutto, no, tutt'altro... Ma il sottotesto? Non vedo il sottotesto".
Perché si ha da sapere che a quel tempo ogni copione che mirasse a suscitare quantomeno il rispetto del lettore non poteva essere sfornito del corrispondente sottotesto. Per le nuove generazioni all'oscuro di tutto, e dunque anche di quel coriaceo momento, farò un esempio che va preso con le pinze (anche perché non è igienico prendere gli esempi con le mani). Se un personaggio diceva ad un altro: "Buon giorno, come stai? Bella giornata, non trovi?", guai a te autore se voleva dire soltanto questo.
Bisognava quantomeno che intendesse dire: "Levati davanti, ho una fretta fottuta, e me ne sbatto della tua salute, venisse pure il diluvio universale!". Il linguaggio del sottotesto, va da sé, poteva essere molto più libero e disinibito. Fu così che smisi di scrivere testi e passai a scrivere direttamente sottotesti. Non soltanto per me, beninteso. Prestai la mia opera di autore di sottotesti anche a molti dei miei colleghi, soprattutto a coloro che, oberati da impegni accademici, o pubblicistici, o semplicemente familiari, stentavano a trovare il tempo per scrivere il testo, figuriamoci se gliene avanzava per il sottotesto. Sbarcai il lunario, ma di certo non mi feci ricco. D'altra parte non è con il teatro che si fanno i soldi. Forse scrivendo testi per la mafia... Ma ai concorsi chiedono testi "contro" la mafia, e dunque viene a svanire anche quest'ultima speranza. Ma un sogno nel cassetto ce l'ho anch'io. E ci lavoro giorno e notte. Di che cosa si tratti, è presto detto. In risposta alla furibonda smania che i registi hanno di stravolgere i classici infierendo soprattutto sull'ambientazione, ho in serbo un Amleto in edizione rigidamente integrale, nonché rispettosa della benché minima didascalia. L'unica libertà che mi concederò è nella formazione della compagnia, che sarà composta per intero da ventriloqui. Ho un solo problema: non ho trovato una giovane ventriloqua per il ruolo di Ofelia. Ma risolverò, temo, ricorrendo a un giovanotto. Il teatro en travesti tira ancora molto. Sarà questa la volta che attirerò su di me l'attenzione di qualche critico di tendenza.
TRATTO DA: Memorie dal sottotesto, di Manlio Santanelli, in "Quaderno di Drammaturgia", 1996, pp. 15-19.