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Manlio Santanelli - Scritti vari

Manlio Santanelli

a cura di Barbara Barone

 

Beati i senza tetto perché vedranno il cielo.

M. Santanelli

Prefazione a Uscita d'Emergenza

Detto fra noi non ho alcuna simpatia per le prefazioni, né tantomeno per quelle false varianti che oggi si ama definire "note introduttive"; e questo in modo particolare quando prefatore e autore, al confronto delle firme, con o senza lente d'ingrandimento, risultano fatalmente essere la stessa persona.
È un'antipatia che costeggia il disagio, se non addirittura il malessere. E una ragione c'è: per quanto ci si ponga nello stato d'animo più dimesso e colloquiale, raramente si sfugge all'insana tentazione - chi è senza peccato scagli la prima prefazione! - di spiegare tutto a tutti. E diciamocelo sinceramente: non c'è nulla di più intollerabile, ai nostri giorni, di chi si fa profeta di se stesso.
Senza contare il panico che certe introduzioni procurano a chi vi si addentri privo dei più aggiornati vocabolari.
Tuttavia, in qualità di autore del testo qui presentato, non posso esimermi dal fornire almeno qualche chiarimento su una motivazione personale che ha finito per fare da cornice all'intera opera. Ecco perché farò ricorso a quello che in altra occasione, vale a dire nel caso di altri, non esiterei a definire "bieco autobiografismo".
Si ha da sapere che ho trascorso la mia infanzia, e cioè dalla mia nascita ai venti anni - sì, proprio venti: è sempre stata una mia prerogativa prolungare le stagioni della mia vita molto oltre i loro limiti normali; e tuttora a quarant'anni suonati, nutro seri dubbi di essere uscito dall'adolescenza - come dicevo, si ha da sapere che ho trascorso la mia infanzia in una angusta magione di un ancor più angusto edificio del centro storico.
Ma il destino, come nei migliori romanzi popolari, era in agguato. E infatti un brutto giorno due ingegneri del genio civile bussarono alla porta, entrarono, osservarono alcune lesioni alle pareti (che noi francamente avevamo considerato più che altro decorative), e dichiararono inabitabili tre quarti della nostra abitazione. Confinati nell'unica ala dell'edificio ancora immune dai tardivi ma inesorabili effetti della guerra, desolati assistemmo alla progressiva muratura di balconi e finestre da parte di maestranze che lavoravano cantando O sole mio. Fino a ritrovarci rinchiusi in una sorta di bunker, con l'incubo che anche quello un giorno o l'altro potesse crollare sul capo.
Ma eravamo giovani e intraprendenti, e dopo un'iniziale titubanza durata non più di due anni trovammo il coraggio di trasferirci in una dimora meno augusta, ma un tantino più abitabile.
Ciò purtroppo non riesce ai due personaggi di questa Uscita d'emergenza. Messi a dura prova da un'esistenza che ha lasciato loro soltanto l'amaro sapore della memoria, essi non sono in grado di esprimere altra volontà se non quella di spostarsi su e giù per l'unica stanza che costituisce il loro covo, in una smania di emigrare che però non li porta mai oltre la soglia di casa.
Minacce, sospetti reciproci, equivoci e travestimenti costituiscono ormai il loro tragico e ad un tempo clownesco sistema di affrontare il vuoto quotidiano.
Non aggiungo altro. Il resto va da sé, nel senso che ogni spettatore sarà libero di ritrovare nella commedia quegli umori che gli sono più congeniali, beninteso anche contro le intenzioni dello stesso autore.

Tratto da: M. Santanelli, Prefazione a Uscita d'Emergenza, Firenze, La Casa Usher,1983.