Raffaele Viviani
a cura di Nunzia Acanfora
E ce ne stanno fatiche...
R. Viviani
a cura di Nunzia Acanfora
E ce ne stanno fatiche...
R. Viviani
Il riconoscimento di Dario Fo
Assai tempestiva - oltre che, naturalmente, opportuna - è giunta l'altro ieri la giornata di studio su Viviani, organizzata all'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa da Antonia Lezza e Pasquale Scialò. Perché appena il giorno prima s'erano concluse, al Mercadante, le repliche de I Dieci Comandamenti diretti da Mario Martone: lo spettacolo che, a parte quelli intrinseci, vanta il merito di aver riacceso l'attenzione - troppo spesso e troppo colpevolmente sopita - sull'opera del grandissimo don Raffaele. Insomma, una riflessione teorica s'è utilmente sommata all'esempio pratico. E proprio di questo avrebbe costantemente bisogno Viviani per vedere una buona volta riconosciuto il posto di rilievo assoluto che gli spetta di diritto nel panorama drammaturgico, e non solo napoletano, del Novecento: del resto, l'ha detto anche Dario Fo, quando - nel corso del suo video/intervento - s'è prima soffermato sulle parentele strettissime riscontrabili fra lo stesso Viviani, Ruzante e le avanguardie storiche europee, a partire dall'espressionismo, e poi - per l'appunto muovendo da tali considerazioni - ha invitato i giovani a studiare il teatro italiano e a portare in scena, molto più di quanto si sia fatto sinora, quell'autore che ha letteralmente rivoluzionato il teatro a cavallo fra le due guerre.
Ebbene, giusto a un versante pratico, quello dell'odierna situazione teatrale cittadina, possono essere vantaggiosamente applicate le più significative riflessioni fatte durante il convegno: circa il realismo tutto particolare seguito da Viviani (un realismo, in breve, che sistematicamente trascorre nella dimensione della metafora e del simbolo) e la lingua da lui adoperata, un dialetto aspro e feroce che non ha più nulla né dell'asettica raffinatezza letteraria di Di Giacomo né del bozzettismo documentaristico di Ferdinando Russo, ma è la lingua vera, e ad un tempo "inventata", di chi è costretto a sua volta a inventarsi la giornata per poter sopravvivere.
Non è chi non veda, infatti, come la massima parte della programmazione dialettale nelle sale cittadine s'agganci per l'appunto a un bozzettismo esangue e manieristico, che non ha più alcun legame con la storia e l'attualità e, per giunta, si serve di un vernacolo spento e insignificante, assolutamente avulso dai bisogni e dalle vicende reali (collettive o personali che siano) della Napoli d'oggi. Già, occorrerebbe proprio una salutare e massiccia iniezione della "medicina" vivianea descritta ancora da Fo: "La capacità di adoperare schemi tragici per ottenere effetti comici o grotteschi e, viceversa, chiavi comiche o grottesche per conseguire risultati tragici."
Fatte le debite proporzioni e differenze, e per mettere in campo un altro esempio pratico, su questa strada si muove - come già ho avuto modo di rilevare in sede di recensione - la nuova commedia di Vincenzo Salemme, Sogni e bisogni, in scena al Diana. La lezione di Viviani, in definitiva, continua ad essere rintracciabile, se, s'intende, vogliamo rintracciarla: e a patto di non castrarla, come tentò di fare la censura fascista e come tentano di fare anche oggi vari potentati del teatro "ufficiale", per i quali Viviani - in quanto non "consolante" - rimane pericoloso, tanto pericoloso (e stavolta, per carità di patria, non faccio esempi) da doverlo ridurre, persino falsificandone i testi, a una volgare macchiettista qualunque.
Enrico FIORE, "Il Mattino", 31 gennaio 2001.