Francesco Silvestri
a cura di Vincenzo Albano
Questo mondo qua, piccerillo mio, tu non lo sai, tu non lo sai ancora, ma è pieno di colori...
F. Silvestri
a cura di Vincenzo Albano
Questo mondo qua, piccerillo mio, tu non lo sai, tu non lo sai ancora, ma è pieno di colori...
F. Silvestri
Le pièce di Francesco Silvestri, a differenza di alcune scritture teatrali del secondo Novecento in cui viene meno lo statuto dell'opera drammatica, conservano la struttura classica del testo teatrale, costituita dalla suddivisione in atti e scene, dalla presenza delle didascalie e dall'indicazione dell'ambiente in cui si svolgeranno le vicende di personaggi con una precisa storia ed identità. Alcune di esse, sembrano tuttavia ereditare dal cinema la loro scansione drammaturgica ed al cinema stesso potrebbero prestarsi. Non è un caso che i monologhi delle protagoniste di Streghe da marciapiede (del quale esiste anche una bozza di sceneggiatura non compiuta) siano inseriti in una struttura testuale che alterna flash-back da pellicola a confessioni che assumono le fattezze di un flusso di coscienza; non lo è l'insolita teatralità di Saro e la rosa (nato originariamente come sceneggiatura), dettata dal perfetto connubio tra tempo interiore e tempo cronologico e da ritmi prettamente cinematografici, ovvero racconti e dialoghi avvenuti in momenti e luoghi diversi che si intersecano e si sovrappongono. Non lo è l'atipicità di Mio Capitano, la cui struttura si presenta frammentaria e priva di un centro drammaturgico; la cui trama è, in fin dei conti, una non-storia dove ogni personaggio e la sua relativa vicenda personale viaggiano attorno ad un'orbita autonoma, ad un sistema di tensioni emotive quasi private e non rispetto ad uno altrui. È un testo che si presta ad una realizzazione cinematografica ed è concepito, piuttosto, come sceneggiatura.
Un impianto di questo tipo caratterizza La guerra di Martin, che procede per cesure e dissolvenze incrociate tipiche di un montaggio, e Gli occhi di Maddalena, la cui vicenda, ambientata all'interno del salone di una villa, si snoda parallelamente anche nella soffitta della medesima, attraverso una serie di stacchi che ricordano il movimento di una macchina da presa. A dare ancora più forza alla suggestione filmica della scrittura è, in questo caso, non solo la presenza di alcune scene non dialogiche, concepite come sceneggiatura, ma anche il ruolo di Maria, le cui battute soprattutto nel secondo atto non sono altro che la voce dei suoi pensieri. Si procede, dunque, a dispetto della linearità narrativa, anche quando la pratica è quella del racconto teatrale breve (Storiacce, Fiori d'agave e Tre pezzi d'amore) o del monologo (Mon enfant, Effetto C.C. (Il Topolino Crick), Fratellini). In questi casi è l'utilizzo della lingua a determinare, particolarmente, la scansione drammaturgica. Non esiste, al proposito, una scelta di campo. In generale, la lingua utilizzata è un impasto "alla Queneau" di "partenopeo" e di "italiano alto" che ben si adatta a contaminazioni tra fiaba e trasgressione, realtà ed assurdo, tipiche di questa drammaturgia.
È strumentale a ciò di cui si parla; è veicolo di visioni e di lirismo, pensiamo a Storiacce; è descrizione di fatti e persone, ma pure di realtà che sembrerebbero irrappresentabili. Sapida e descrittiva, "accelerata e dai rapidi capovolgimenti", a volte inventa anche l'aria di una facile canzone.
È la lingua immediata de La guerra di Martin, la cui componente ludica ne segna visibilmente la drammaturgia; è quella di Angeli all'inferno, profondamente suggestionata da un eloquio che sedimenta in un cervello provato dalla "follia". È l'unico testo scritto interamente in napoletano perché i personaggi stessi necessitavano di una lingua "sporca", rotta da gesti, spezzata nell'atto stesso del pronunciarla e reinventata dal singolo personaggio che attinge dalla propria psicologia per comunicare.
È, ancora, lingua ridotta ai minimi termini, che procede più per sottrazione che per ridondanza narrativa, che non descrive, ma stimola ad intuire; lingua dei suoni declinata attraverso cesure, singhiozzi ed emozioni agitate. In Fratellini la parola è vera come il dialetto, "evocativa come le cadenze di una celebrazione, tenera come il balbettio di un bimbo". In questo senso, perde il suo significato tradizionale per divenire simbolica emissione di suoni che risalta la bellezza e l'importanza dei gesti. Uso multiplo e strumentale del linguaggio, dunque "lingue". In Effetto C.C. (Il topolino Crick), Antonio Cafiero è il protagonista "in via di definizione" che in un certo senso tenta e realizza un'autoevoluzione attraverso il recupero e la gestione di un compiuto linguaggio. Egli passa da una balbuzie totale - linguaggio sincopato e ripetitivo - ad un napoletano appena masticato, fino a momenti di lingua pura. È il progressivo passaggio dal sentimento espresso con il fonema libero e la musicalità sillabica al dominio della ragione, che usa una lingua sì colta, ma emozionalmente censoria.
È attraverso queste "lingue" che i personaggi trovano una individualità irripetibile ed è grazie ad esse ed all'utilizzo di altri strumenti espressivi, pensiamo ad Ali e Sogni trasognati, che affiora un mondo "ancestrale" per fortuna ancora incontaminato.