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Autori - Annibale Ruccello

Annibale Ruccello

a cura di Carmela Lucia

 

E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!

A. Ruccello, Ferdinando

Ruccello e la tradizione napoletana

Il teatro di Ruccello è dunque un teatro antinaturalistico, sperimentale, aperto alla contaminazione di linguaggi e codici espressivi diversi, dal cinema alla musica, che diventa un elemento indissolubile del testo. È anche vero però che è un teatro che recupera le costruzioni e le architetture solide della rappresentazione, una certa classica coesione ottenuta con le scene, i quadri, i tempi, come mostra in particolare l’opera più matura, Ferdinando. Se quindi, da un parte, appare quasi per vocazione aperto agli influssi del teatro d’avanguardia, in cui negli anni Ottanta si tendeva a enfatizzare tutti i codici della messa in scena che fossero diversi dalla parola “tout court”, dalla musica al corpo o alle luci, dall’altra, la drammaturgia di Ruccello tenta, innanzitutto, di recuperare la permanenza e l’immutabilità della dimensione della scrittura, che particolarmente in quella fase le nuove sperimentazioni del “teatro d’immagine” rendevano sempre più evanescente. La valorizzazione di tutti gli altri codici interagenti nel messaggio teatrale toglieva, come si è detto, il primato alla scrittura e alla parola, mettendo in crisi la sua tradizionale funzione comunicativa nell’atto ermeneutico del messaggio teatrale. Diversamente, dunque piuttosto in controtendenza con il clima generale dell’epoca, la testualità e la scrittura letteraria - assunta come “fonte” e “avantesto” - diventa (proprio nel momento in cui viene messa in crisi) un elemento essenziale della drammaturgia di Ruccello, che si apre e si chiude nel segno delle riscritture (o adattamenti da testi letterari). L’osteria del melograno e La fiaccola sotto il moggio sono, infatti, due riscritture, due liberi adattamenti, mutuati dalla tradizione letteraria (Basile e D’Annunzio). Come del resto il capolavoro di Ruccello, Ferdinando, un “barocco” kammerspiel sulla decadenza borbonica, che sfrutta, come un vero e proprio avantesto di riferimento, due precisi modelli letterari: il grande affresco storico del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (da cui Ruccello mutua il contesto storico) e Teorema di Pasolini (da cui prende il motivo del “visiting angel”, il giovane amante che sconvolge le vite delle due donne Donna Clotilde, Gesualda e Don Catello).
Per questi aspetti il teatro di Ruccello sembra capace di coniugare i modelli del passato con i messaggi della modernità: con lui e con Moscato, in particolare, la drammaturgia napoletana recupera in questo modo una grande componente dell’espressività letteraria e una forte dimensione testuale. Proprio in una fase così critica, in cui i legami fra drammaturgia scritta e pratica scenica sembrano essersi notevolmente allentati, l’opera di Ruccello, come del resto dello stesso Moscato (i due autori-attori che più degli altri in quegli anni sono legati da un forte sodalizio) dimostra come il mancato legame tra scena e scrittura possa di nuovo essere ripristinato e anzi possa trovare nuova linfa sulla scena. In particolare, Ruccello sceglie, soprattutto nella sua fase più matura, di ritornare alla struttura classica del testo: con Ferdinando, ad esempio, si ispira alle fonti letterarie e soprattutto ripristina tempi, quadri, trame, personaggi e didascalie tipiche delle costruzioni del teatro classico. Com’è stato detto, con quest’opera ritorna la fiducia nel testo scritto inteso come momento fondante dell’evento scenico. Si recuperano anche i riferimenti alla tradizione vernacolare del Seicento, si rivisita la vocazione affabulatoria del rito del racconto, il cunto componente importante di molti testi della drammaturgia di Ruccello, che ripristina gli antichi modelli della tradizione napoletana.
Sicuramente, il primo suo punto di riferimento è il melodramma sociale e l’elegia crepuscolare di Viviani. Non a caso una delle sue primissime opere intitolata Il Rione (commedia in due tempi), scritta nel 1973, si apre con una scena prima ambientata “annanze a nu vascio”. Tra i luoghi in cui si inscena il plot di una commedia dai toni decisamente farseschi, per l’intreccio di voci e suoni provenienti dalla strada, protagonista diventa il “vicolo” (come una commedia omonima di Viviani, appunto), che raccoglie la ridondanza enfatica dei “deverbia” (nel senso etimologico del termine), gli scontri verbali che scoppiano tra figure di popolani tipiche del teatro di Viviani. Il Rione appare infatti come un bozzetto di grande realismo, con un vicolo brulicante di anime, che sembrano derivare dall’infinita galleria di immagini disperate e buffonesche del teatro vivianeo e non solo. Di questo grande modello, Ruccello tende a riprodurre soprattutto le voci colorate che si spargono nel vicolo, nella piazza: le voci di Brigidella ’a caporione, o di Carmela ’a verdummara, delle bizzoche, dei teppisti e dei bambini, che diventano quasi una partitura di suoni che si incrociano in luoghi aperti (che, peraltro, dopo quest’opera non saranno più riproposti nel teatro di Ruccello).
Come dunque in Viviani, definito un “grande conoscitore della psicologia femminile”, anche nel teatro di Ruccello l’universo femminile è centrale nella rappresentazione dei drammi e ciò lo si evince già da questa prima opera. Probabilmente sono proprio i personaggi femminili, per lo più sempre popolari - si pensi a Prezzetella ’a capera (la pettinatrice) personaggio “ricco di erotismo che incarna l’atmosfera fresca e gradevole della commedia ’O vico” - che ispirano le figure umoristiche e insieme tragiche che animano la commedia di Ruccello, come le due prostitute Brigida o Rossella, di cui sin dalla didascalia d’apertura (Rosanna […] dalla vita ha subito molto, per non dire tutto, ed è sempre in bilico fra un’amara rassegnazione ed una veemente protesta) Ruccello traccia dei profili psicologici molto analitici, tali da anticipare proprio per la loro profondità, le personalità di altre donne protagoniste delle sue opere più mature, come Adriana o Clotilde, per esempio (per il riferimento all’elemento femminile in Viviani cfr. A. Lezza, P. Scialò, Viviani. L’autore - l’interprete. Il cantastorie urbano, Napoli, Colonnese editore, 2000, in particolare alle pp. 49-51; la citazione è alle pagine 49-50).
Questa commedia (per certi aspetti ancora ingenua, soprattutto per la complessa architettura delle nove scene che si succedono, rendendo il ritmo della rappresentazione molto complesso) sembra quindi derivare molti aspetti dal teatro di Viviani, per il fatto che attinge all’umore e all’humus sanguigno dei vicoli degradati, popolati da un’umanità anche disperata e da figure come le prostitute e i “signori” del rione, còlto nella solita notte della festa di Natale. Qui soprattutto la folla, il coro sociale da cui emergono frammenti di storie individuali che si intrecciano, storie di forti passioni, d’amore e d’onore, di prostitute e di corna, di omosessuali e camorra, sembrano un chiaro omaggio alla tradizione napoletana, come pure il vociante concertato polifonico che aggroviglia il rione, nonché il gioco tra esterno e interno, tra spazio aperto e chiuso. Si rappresenta insomma la scena nella piazzetta più malfamata di Castellammare e poi un vicolo, incorniciato da un arco, stretto, buio, fino al particolare delle porte dei bassi che si affacciano sulla strada. È fondamentale inoltre osservare come questa dimensione coreutica (la stessa che appartiene anche alla riscrittura Napoli-hollywood…..un’ereditiera?) scompaia poi nelle opere principali, così come le microstorie che si intrecciano, i conflitti erotici e le gelosie d’onore, gli scontri tra guardie e guappi, che Ruccello sembra ricavare dalle opere di Viviani non si riproporranno nelle opere più mature, se non per alcuni aspetti particolari (il tema della gelosia e del delitto d’onore, per esempio, ritornerà, in un’ottica straniata e capovolta in Ferdinando). Su questi aspetti ritorna anche Rita Picchi quando osserva quanto segue:

”Ruccello avrebbe sicuramente apprezzato di più un collegamento col teatro di Viviani, che sentiva più vicino e prossimo a sé. Riteneva ‘Eduardo’ portatore di un certo buonismo, di un linguaggio e una ‘morale’ più piccolo borghese che autenticamente popolare e ‘rivoluzionario’ ” (A. Ruccello, Scritti inediti. Una commedia e dieci saggi, con un percorso critico di Rita Picchi, cit., p. 15).

Tuttavia se dopo Il Rione Ruccello abbandona la geografia simbolica della strada, così come rinuncia al luogo topico della piazza, allo spazio pubblico insomma, per ridimensionare la storia tutta in una camera e chiudere lì dentro il destino dell’anima infranta e dimidiata di cui rappresenterà la tragedia, non mancherà di rivolgersi a Viviani come addirittura a un suo nume tutelare, proprio quando sarà sollecitato a riflettere sulle ascendenze del suo teatro. Infatti in un’intervista qui più volte citata, Ruccello dichiarerà quanto segue:

”E poi, c’è il rapporto con i drammaturghi napoletani, con Viviani, con De Filippo, con lo stesso De Simone. Un rapporto che non è di continuità diretta, ma di riscoperta, un andare a riconsiderare quella che può essere stata una scrittura scenica, e cosa di questa scrittura per te può funzionare ancora; può essere l’adesione al reale, al quotidiano di Eduardo; può essere la rappresentazione vivianesca dell’emarginazione” (G. G., L. G., Una drammaturgia sui corpi, “Sipario”, cit., p. 72).

Se quindi di tradizione si nutre il suo teatro, è anche vero che per l’autore stabile, come del resto anche per Moscato e per gli altri autori della “nuova drammaturgia napoletana”, la tradizione napoletana dei grandi autori teatrali napoletani del passato, con Viviani, Scarpetta, Eduardo, costituisce un’unità da spezzare, un’eredità da sfruttare per disarticolarne i codici e consumarne le fibre più intime: dall’oleografico fondale napoletano, al contrasto lingua-dialetto, ai conflitti sociali, alla famiglia, alle figure dei reietti appunto. Del resto, sulla frattura, più che sulle convergenze, nonché sulla necessità di deautomatizzare e frantumare i conguagli di una koinè stabilitasi sulla ripetibilità e soprattutto sulla riconoscibilità dei segni riflette lo stesso Ruccello, che dichiara esplicitamente di volerla tradire e infrangere questa eredità, soprattutto se legata al modello eduardiano. Com’è noto, negli anni in cui si formava Ruccello, Eduardo rappresentava sì un classico di riferimento a cui guardare, ma soprattutto un modello da criticare e da cui prendere le distanze.
Ciò nonostante, al suo nome rimangono legati la grande tradizione dell’attore-autore, l’ambientazione a Napoli, non tanto la famiglia, quanto la disgregazione di essa, e ancora il dramma esistenziale, le angosce e i conflitti che si porta dietro. Tuttavia, diversamente da Eduardo per cui la privacy è estranea agli interni - che, come sappiamo, sono sempre in una continua relazione con l’esterno (rappresentato dalla stanza-soggiorno o dal terrazzo) - lo spazio nei testi di Ruccello cessa di essere uno spazio di transizione tra il fuori e il dentro, e si chiude all’esterno. In particolare la casa rappresentata nei suoi drammi diventa piuttosto un bunker; gli interni sono sempre claustrofobici: non troviamo più porte che si affacciano sul vico, o balconi che spesso evocavano anche una meta-comunicazione con lo spettatore, che appare quasi convocato sulla scena, come per Pirandello (si pensi solo a Questi fantasmi!). Analogamente, sul piano della lingua, rispetto alla soluzione linguistica di Eduardo che opta per uno “stile medio”, un italiano che si colora di tratti napoletani e regionali piegandosi a una più trasparente leggibilità, la lingua di Ruccello appare decisamente più vischiosa, materica e ricca di elementi gergali. In particolare, l’autore stabiese, anche fedele alla tradizione della sua parlata locale, recupera la secca diglossia italiano-dialetto presente nell’antagonismo dialettico di Ferdinando e Gesualda, ma la sua lingua, rispetto a quella di Eduardo risulta molto più impastata di elementi vernacolari e gergali. Ancora, si ripete in Ruccello, il doppio registro tra comico e serio, così come ritorna la grande rilevanza nel suo teatro della parola e della trama, importante almeno quanto nei grandi padri di riferimento (non solo in Eduardo, ma anche in Viviani o Scarpetta).
In ogni modo, quando si affronta il complesso rapporto tra Ruccello e la tradizione napoletana, occorre necessariamente superare la facile etichetta di un teatro “post-eduardiano”, in quanto in Ruccello, come in altri autori della nuova drammaturgia napoletana, la matrice eduardiana appare superata o, comunque, attraversata, come ha giustamente affermato Antonia Lezza (Indagine sul testo teatrale, in Teatri nella rete. Testualità ed ipertestualità della letteratura teatrale, a cura di Antonia Lezza, Quaderni del Dipartimento di Letteratura, Arte, Spettacolo, Università degli Studi di Salerno, Avellino, Delta3 edizioni, 2005, pp. 15-30; citazione alle pp.22-23):

”I più recenti contributi critici, infatti, non solo hanno evidenziato la specificità di questi drammaturghi, – Moscato, Santanelli e Ruccello – ma hanno ricostruito il filone della scrittura drammaturgica ‘napoletana’, relativo al secondo Novecento, in autori come Franco Autiero, Renato Carpentieri, Mario Martone, Antonio Neiwiller e Francesco Silvestri. Ciascuno di essi è un’entità a sé stante ed ha svolto un percorso culturale autonomo, anche se per molti di essi si è creata spesso un’intensa collaborazione.
Viviani ed Eduardo sono dei modelli forti, ma le fonti degli autori che appartengono alla drammaturgia contemporanea vanno individuate in Pasolini, Pessoa, Valentin, Pinter; ed inoltre nel mito, nella favola, nella tradizione, nella religione.”