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Autori - Annibale Ruccello

Annibale Ruccello

a cura di Carmela Lucia

 

E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!

A. Ruccello, Ferdinando

I temi

Con la produzione della cooperativa teatrale “Il Carro” debuttano al “Na Babele Theatre” di Napoli (oggi scomparso) sia Le cinque rose di Jennifer (prima opera autonoma di Ruccello, da lui scritta diretta e interpretata nel 1980), sia Una tranquilla notte d’estate (1982 poi riscritta e rielaborata in una nuova versione col titolo Notturno di donna con ospiti nel 1983), opere grazie alle quali Ruccello riceve l’attenzione della critica locale. Queste due commedie insieme a Week-end (1986) sono state diffuse, secondo una dizione coniata dallo stesso autore, con il nome di “trilogia del quotidiano da camera”. E in effetti, in estrema sintesi, queste opere si possono intendere come tragicommedie in cui protagonista è – come afferma Ruccello – “il ‘brutto’ della vita” (G. G., L. G., Ruccello, Una drammaturgia sui corpi, cit., p. 72), che si identifica nella routine di esistenze anonime, nelle storie “minimali” e dunque abituali, non straordinarie, rappresentate peraltro in una cornice banale, una periferia di provincia, un quartiere dormitorio, un monolocale, una semplice camera che fa da soggiorno, una cucina. Protagoniste di queste tre opere sono tre donne, appunto prigioniere in una “stanza della tortura” (per usare una nota definizione usata da Macchia per Pirandello, in G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1992) e consumate da attese inutili e insulse (Jennifer), nevrosi ossessive (Adriana), o complessi d’inferiorità (Ida). Si tratta di donne incomprese e infelici, il cui destino è segnato da una strana inquietudine e da un malcelato malessere nei confronti dell’altro (che sia l’amante, la famiglia d’origine o il marito e i figli). Il mondo esterno è vissuto dalla loro coscienza malata e abulica spesso come una “minaccia”, proprio come nel teatro di Pinter. L’estraneo si può incarnare nella minaccia di un killer che terrorizza il quartiere-ghetto dei travestiti, in cui vive relegata Jennifer; o può manifestarsi nei fantasmi del “supermarket 2000”, in simulacri di un edonismo d’accatto, che irrompono nella cucina di Adriana, con la stessa insulsa protervia degli spot televisivi, che occupano la vita di questa povera madre.
Quanto si è detto per le protagoniste femminili della “Trilogia nera”, vale anche per le donne che animano i monologhi raggruppati sotto il titolo Mamma-Piccole tragedie minimali. In bilico tra follia e ragione queste donne, madri o figlie, vivono come mutilate, private anche del loro linguaggio naturale, perché sradicate dalla loro cultura d’origine e impastate, nel corpo e nella mente, di nuovi miti, soprattutto quelli ossessivi e alienanti della televisione. Abitano luoghi metaforici, antri più che case, come Anna Cappelli, la quale, nell’estremo tentativo di trattenere una felicità che sta perdendo, divora ciò che rimane del compagno mutilato, pur di restare in quella casa-bunker che aveva tanto desiderato di possedere.
Protagonista delle opere di Ruccello è insomma una lunga schiera di donne costrette a vivere un rapporto asfittico e morboso con la famiglia, considerata piuttosto che come un legame naturale, come un vincolo mortifero e patogeno da cui è impossibile liberarsi. Queste figure di “deportate”, così come le ha definite lo stesso Ruccello, recano nelle loro anime, come anche nei loro corpi, i segni indelebili di un disagio, di una vita che a stento riescono a reggere e che sopportano fino allo spasimo. Ruccello, che da attento osservatore del teatro della vita com’è stato, si ispira sempre alla realtà in cui vive, le rappresenta sulla scena come figure piene, ridondanti, nel corpo come nella voce, ma allo stesso tempo, come figure nude, private della loro stessa essenza, vittime dei fantasmi della loro mente, succubi di padri e mariti o anche amanti, da cui si sentono ossessionate, ma che non riescono spesso a dominare.
Sono creature prese dal brulicante sottosuolo napoletano, figure di madri attorniate da bambini vocianti, di casalinghe apatiche, di travestiti vittime dall’ossessione del loro corpo. Sono figure che il “progresso” (altra parola-chiave che domina nella riflessione non solo di Ruccello, ma anche di Pasolini) ha traghettato e fatto uscire anche violentemente dal milieu di appartenenza, da una cultura contadina povera, ma comunque vera, originale, per poi disperderle in una dimensione altra, quella che si incarna nei simboli della città, del matrimonio, della nuova cultura dei media, una cultura e un contesto di cui queste donne non riescono più a decodificare i codici. I nuovi modelli di comportamento, che impongono un “finto benessere” e un edonismo d’accatto, impongono leggi e vincoli che queste figure di deportate non sono in grado di interpretare, sprovviste come sono di una loro identità, di una cultura e persino di una loro lingua.
La coscienza dimidiata e mutilata di queste grottesche anime sopravvive a stenti ai colpi dell’omologazione, del cambiamento, dell’instabilità del sociale: i loro sforzi appaiono come tragicamente vani, in bilico in situazioni che dal tragico sfociano nel comico e viceversa; sopravvivendo a fatica, infine cercano invano un’identità perduta, in un limbo amorfo e asfittico, trovando spesso rimedio all’incubo dell’esistenza solo in esiti tragici. Per questo in primo piano, nel teatro di Ruccello, c’è il problema della scissione della coscienza e delle personalità multiple che spesso convivono nell’universo femmineo, indagato così acutamente come mai prima di questo autore. Si pensi per esempio al tema (così attuale, purtroppo) del “baby-blues”, la patologia depressiva di cui soffrono molte madri che si spingono fino all’infanticidio (è questo il tema portante di Notturno di donna con ospiti). Adriana, protagonista di Notturno, viene rappresentata come una figura doppia, da una parte come una normale madre-moglie-casalinga, dall’altra come una folle omicida. La sua maschera, che ha apparentemente i contorni di una madre solerte, pian piano si colora sulla scena con le tinte forti, nere e anche trasgressive di una moderna Medea, scissa tra i frammenti di una vita familiare e i ricordi rimossi (un aborto), tra un rapporto morboso col padre e l’eros negato (l’amore per un ex fidanzato). Ida, protagonista di Weeek-end, è anch’essa logorata da un sentimento di rivalsa nei confronti della famiglia d’origine, in particolare delle sorelle, colpevoli di averla fatta sentire sempre diversa per via di una menomazione alla gamba. Questa donna è, come il travestito Jennifer, vittima di un rapporto distorto col proprio corpo, vissuto appunto come una trappola. Ma l’handicap di Ida è in realtà simbolo e metafora di una mutilazione dell’anima, che appare per questo lacerata dal complesso di inferiorità, che la spinge ad abusare di giovani amanti.
In conclusione, Ruccello rappresenta in scena come una sorta di mondo “doppio”, che si traduce nell’esteriorità esibita di un decoro ingannevole e kitsch e che si manifesta soprattutto negli oggetti d’arredo delle Cinque rose di Jennifer e di Notturno di donna con ospiti (il beauty di Jennifer; i soprammobili e i divani ricoperti dalla plastica del “salotto buono” di Adriana). Queste donne, che amano circondarsi di oggetti inutili, sono chiuse in una casa che appare quasi un bunker e per questo percepiscono l’altro, come un intruso, una minaccia. Il mondo esterno viene filtrato dalla voce dei mass media, dal loro linguaggio caricaturale; le loro giornate sono scandite dal rumore di fondo di radio private, che col loro patetico parlare accompagnano i gesti meccanici della routine casalinga.