Annibale Ruccello
a cura di Carmela Lucia
E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!
A. Ruccello, Ferdinando
a cura di Carmela Lucia
E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!
A. Ruccello, Ferdinando
I luoghi delle commedie di Ruccello evocano metaforicamente la degradazione sociale e culturale della periferia di Napoli, come del resto testimoniato dalle didascalie così fitte di riferimenti inequivocabili ai contesti della periferia urbana. Il suo è poi, come è stato spesso detto, un teatro da camera, che ripropone le atmosfere chiuse, malinconiche di Cechov, Ibsen, o Strindberg. Il tema agorafobico, che si connota del resto come una cifra costante della drammaturgia contemporanea (si pensi al teatro di Manfridi, per esempio, o anche di Santanelli), appare centrale nella descrizione degli interni delle opere di Ruccello: una presenza costante è in particolare il letto, o anche la cucina, che diventa una sorta di sineddoche, o “parte per il tutto”, con cui si identifica la donna.
Lo spazio in generale, sia quello evocato, del “fuori” come la periferia della metropoli, sia quello effettivamente rappresentato, la stanza-bunker in cui si consumano le tragedie dei suoi personaggi, si identifica con un hinterland privato, che resta comunque ai margini della storia o anche del progresso. In questo luogo marginale, infimo, degradato rappresentato da una stanza asfittica, spesso arredata con oggetti kitsch o comunque volgari, si consumano le grandi e “piccole” tragedie di solitudine, come quella di Jennifer o di Adriana.
In quasi tutti i testi, la città rimane sullo sfondo: non a caso le didascalie d’apertura ci parlano di quartieri-ghetto, o case per lo più popolari, simili a quelle create a Napoli all’epoca del laurismo e del cemento selvaggio dell’urbanizzazione post-industriale. In ogni modo la descrizione dell’ambiente sembra voler quasi ricreare sulla scena un’atmosfera di estrema rarefazione, si direbbe di “bradisismo dell’anima”, per usare una metafora di Santanelli. Il paesaggio che Ruccello sembra voler evocare, sullo sfondo dei suoi interni asfittici e pretenziosamente decorosi (il “finto decoro” è una parola che ricorre spesso nelle sue descrizioni), è il paesaggio che si identifica con i margini e i confini di una città in cui l’avanzare delle moderne costruzioni sembra corrodere e corrompere l’autentico humus antropologico e sociale da cui provengono i personaggi sradicati dalla cultura contadina di provenienza (si pensi, per esempio, alla condizione di Ida, la professoressa di lettere trapiantata a Roma, protagonista di Week-end).
Come la campagna, anche la città è lontana: queste case sono ubicate in una sorta di limbo, una zona di confine senza identità storica o segni di riconoscimento; “quartiere” è la parola che ricorre con più frequenza a qualificare un tipo di abitazione anonima, dove donne, isolate in una situazione estrema, vivono come sequestrate tra le quattro mura, percependo l’esterno come una minaccia, un’insidia che attenta alla routine della loro vita amorfa e snervante.
Analogamente, questa dimensione, che rinvia a quel senso di “desolazione e di solitudine”, caratterizza anche la descrizione della villa borbonica di Clotilde, una consunta dimora erede della “villa vesuviana” in cui Scarpetta ambientava tante sue farse. Non a caso anche in Ferdinando, che pure si differenzia rispetto alle altre commedie per la determinazione puntuale di un cronotopo (un tempo e uno spazio ben definito), i personaggi vivono tutti in una situazione claustrofobica. In questa tragicommedia, si assiste al repentino degradarsi di un mondo antico, un mondo fatto di riti, valori e rispetto delle distanze sociali (quelle che la baronessa Clotilde continuamente ricorda a Gesualda, come a Don Catellino, che considera appartenenti a una razza inferiore, perché non nobili). Il tramonto della tradizione coincide con l’alba di una nuova era, annunciata dall’angelo tentatore che assume la maschera reale e immaginaria di Ferdinando (protagonista eponimo dell’opera), identificata come una divinità psicopompa, “di traghettatore tra i mondi, tra due fasi della storia separate da una frattura irreparabile, quella preunitaria e quella postunitaria” (per un’analisi approfondita di questi aspetti cfr. il fondamentale saggio di D. Tomasello, Il fascino discreto della tradizione. Annibale Ruccello drammaturgo, Bari, Edizioni di Pagina, 2008, la citazione è a p. 119).