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Autori - Annibale Ruccello

Annibale Ruccello

a cura di Carmela Lucia

 

E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!

A. Ruccello, Ferdinando

La lingua

Nella produzione teatrale di Ruccello la lingua occupa una posizione di grande rilievo, soprattutto per le sue riflessioni epilinguistiche, che è possibile rintracciare specialmente nelle numerose interviste rilasciate dal drammaturgo.
Come la critica ha rimarcato più volte, Ruccello denuncia, con disincantata ironia e senza dare giudizi di sorta, il degrado di quella che sembrerebbe un’apparente evoluzione, intesa come una criminale anomalia del mondo contemporaneo, che cancellerebbe per questo preteso “progresso” il passato in nome di una finta modernizzazione. Con lo stesso approccio conoscitivo di Pasolini l’autore stabiese sembra cogliere, con il respiro tragico e insieme ironico delle sue visioni altrettanto “eretiche”, le mutazioni dell’ethos della città, invitando a riflettere sulla “perdita” (parola-chiave della riflessione che ruota intorno a questi temi) del tradizionale sistema di ritualità, di costruzione del fantastico, di tradizionale alfabetizzazione. Una perdita che si riflette anche sul linguaggio, in particolare sulla cancellazione dell’oralità vernacolare della tradizione dialettale, contaminata dalla lingua di consumo dei mass-media.
Soluzioni analoghe a quelle di Pasolini, Ruccello sembra quindi sperimentarle anche per la “questione della lingua”. Al pari di Pasolini, che negli stessi anni indagava le ragioni di queste mutazioni culturali e linguistiche aprendo la “nuova questione linguistica” (un dibattito pubblicato nei fascicoli primi e secondi della rivista “Sigma”, nel 1985), Ruccello dimostra una grandissima sensibilità nel leggere, con un approccio da semiologo, i segni di un cambiamento antropologico, che si sedimenta, prima ancora che nelle abitudini di vita, nel linguaggio innanzitutto. Ecco perché, curiosamente, sembra emergere dall’analisi linguistica dei suoi testi quasi un compendio di un’inchiesta sociolinguistica, dove compaiono, esemplificati proprio nei particolari stili espressivi dei suoi personaggi, fenomeni solitamente rubricati dai linguisti come emergenze dell’italiano popolare e individuati da Pasolini come formule tipiche e stereotipi fissi, propri di un nuovo standard omologato sui modelli del neo-“italiano tecnologico”. (Si ricorda qui solo per inciso che la “nuova questione linguistica” viene inaugurata da alcuni interventi di Pasolini, in particolare da una conferenza tenuta in varie città italiane alla fine del 1964, pubblicata da “Rinascita” il 26 dicembre 1964 con il titolo di Nuove questioni linguistiche, per questi aspetti Cfr. C. Marazzini, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti, Roma, Carocci, 2000).
Il discorso dal campo letterario si estendeva a temi linguistici e soprattutto sociali, dal momento che Pasolini sosteneva che l’esperienza del suo sperimentalismo mistilinguistico si stava ormai concludendo, per l’avvento di un nuovo italiano nazionale, un italiano “tecnologico”, sviluppatosi nei centri industriali del Nord Italia e legato al prestigio economico della borghesia neocapitalistica (cfr. P. P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche, in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 5-24).
Più in generale, nella lingua ibrida di Ruccello, impastata di un dialetto corposo e connotata da una straordinaria apertura ai realia del parlato, appaiono numerosi gli esiti linguistici, che non si rifanno a un plurilinguismo modulato letterariamente, bensì a un mimetismo che ha come punto di riferimento solo l’osservazione della realtà e dei compositi linguaggi che lo circondano: dall’imitazione dei gerghi televisivi, che si riflette nell’imposizione di nomi assurdi per i figli (Morgàn, Ursula, Dieguito, Deborah), ignari eredi di una sottocultura televisiva, alla contaminazione con i fenomeni tipici del parlato, che convivono con idiotismi, malapropismi, o reinterpretazioni paraetimologiche, che danno luogo a curiosi lessemi come “ulcera Guatemala” per “duodenale” (come nel monologo La telefonata, in A. Ruccello, Teatro, a cura di L. Libero, Napoli, Guida, 1993, p. 241).
Con lo sguardo dell’antropologo, che osserva l’ambiente linguistico che lo circonda e il suo milieu di appartenenza (lo stesso dei suoi personaggi), Ruccello dimostra come il patrimonio integro, granitico e puro della lingua di acquisizione materna venga intaccato dai tarli di una lingua stinta e corrotta, da un linguaggio che lui stesso icasticamente definisce con un’efficace, triplice aggettivazione “afasico, spento e insignificante” (A. Ruccello, Perché faccio il regista, “Sipario”, marzo-aprile 1987, 466, p. 78).
La lingua del teatro di Ruccello riflette dunque il mondo che il suo teatro rappresenta, in maniera perfettamente isomorfica. Il tessuto antropologico della sottocultura popolare urbana diventa protagonista dei drammi Ruccello, che sono nella quasi totalità ambientati in un anonimo quartiere popolare, in realtà un ghetto, simbolo di un’edilizia popolare che confina chi vi abita in uno spazio amorfo e senza identità (come il “monolocale” de Le cinque rose di Jennifer). Analogamente, sempre ai margini della grande città è la villa borbonica, con la stanza da letto della nobildonna Clotilde, che emana un “tanfo”, segno olfattivo quasi percepibile sulla scena, da cui si intuisce sin da subito il senso della sua volontaria reclusione, da sepolta viva (in Ferdinando, op. cit., p. 152); o infine, sono ambientati nella periferia di un centro urbano, e in particolare nella “cucina di una casa ad un piano alla periferia di una città di provincia», con «un arredamento che si può incontrare molto facilmente in certe zone agiate delle campagne meridionali; […] si intuisce inoltre che appartiene ad una famiglia del piccolo proletariato o di una classe contadina in via di urbanizzazione” (Notturno di donna con ospiti). Le donne che spesso popolano questi ambienti domestici niente affatto disadorni, ma anzi saturi di oggetti inutili, esibiscono una lingua che è parimenti satura e ibrida di elementi popolari, vernacolari, ma soprattutto impastata di parole prese a prestito dai mass media, contaminata da un italiano “selvaggio” imparentato con la lingua veicolata da certa televisione trash. Sull’aspetto della contaminazione e dell’ibridazione tra linguaggi, capace di creare “un conflitto tra linguaggi e culture diverse che coesistono all’interno di una medesima fascia sociale, entro una stesa area urbana”, si è soffermata in particolare Stefania Stefanelli (in Come parla il teatro contemporaneo, in Va in scena l’italiano, Firenze, Cesati, 2006, pp. 141-55; su Ruccello pp. 144-146, la citazione è a pag. 145).
Come si è detto, da regista, e in parte anche da attore e performer dei suoi testi, Ruccello interpreta la deriva della nostra società attraverso una scrittura che lui stesso definisce icasticamente come un “musicale scassato, minimale”, che assume sulla scena aspetti multiformi, attestandosi piuttosto come un coacervo di dialetto, commisto con la parodia dell’italiano televisivo, con echi e riferimenti storici a una lingua “chiantuta”, quella degli avi, intercalata da frammenti della lingua “degradata” del quotidiano. Come giustamente osserva Nicola De Blasi (in Teatro e realtà linguistica: italiano e dialetto nei testi degli autori napoletani, pp. 17-41, in La lingua italiana e il teatro delle diversità, Atti del Convegno, a cura di Stefania Stefanelli, Firenze, Accademia della Crusca, 15-16 marzo 2011, Firenze, 2012, pp. p. 35), in Ruccello:

”il dato linguistico non è mai esornativo o sganciato dalla realtà. Per la sua opera si è talvolta fatto riferimento alla lingua degradata, ma è evidente che nel suo caso la lingua è la sostanza espressiva di un certo mondo, in cui il degrado non è requisito della lingua, ma dell’universo sociale in cui i personaggi sono immersi e del loro stesso profilo culturale. La lingua portata in scena spicca semmai per una certa provvisorietà non definita, in cui i tratti dialettali si combinano con brandelli di un italiano di consumo, in cui tratti dialettali si combinano con brandelli di un italiano di consumo, inadeguato non in quanto italiano, ma perché espressione di una prospettiva angusta e di deprivazione culturale”.

Il dialetto materico di Donna Clotilde, l’eccessivo, la ridondanza della phoné così espressiva del dialetto stabiese, non solo napoletano come precisa lo stesso Ruccello, si fonde in un perfetto mistilinguismo con i dialetti urbani e la loro stlizzazione. Per questo la lingua di Ruccello da un lato appare come una lingua magmatica, visionaria e terrigna, dall’altro appare decisamente post-moderna, per la messa in scena della parodia della lingua cosiddetta di consumo. È ancora una lingua che ci riporta a Basile, a Viviani, a quella lingua “chiantuta”, per ricalcare l’aggettivo riferito all’idioma napoletano in quella Posillecheata che Clotilde si fa leggere da Gesualda come se fosse l’unica consolazione per sciogliere, come un antidoto, il veleno della lingua italiana (“Na lengua straniera!…Barbara!...E senza sapore, senza storia!...”). Come riferisce lo stesso drammaturgo:

”quello che sentiamo a teatro è un napoletano post-vocalico, più connesso a una comunicazione con le vocali che con le consonanti. Io ho usato invece un napoletano imbastardito più Stabiese e così diventa una lingua molto più irta, con molte più ‘doppie’. Per esempio a Napoli si dice ‘susete’ per alzati, a Castellammare si dice ‘sussete’, con due ‘s’. È proprio un’altra cosa, e alla fine, l’accumulo di queste ‘doppie’ porta a un linguaggio molto ‘tosto’[…]. Inoltre, questa doppiezza marca il contrasto tra l’italiano come lingua di ‘testa’ e il napoletano come lingua di ‘viscere’ “.

Dall’altro la lingua dei drammi di Ruccello ostenta un:

”linguaggio (inteso proprio in senso di parola) afasico, spento, insignificante, degradato, come poi sono le stesse storie che racconto. Questo linguaggio così appiattito, così brutto, è quanto di più sgradevole mi è dato di subire acusticamente, eppure senza la sua reale esistenza credo che difficilmente mi sarei messo a scrivere lavori teatrali. Infatti la repulsione che mi ispira è pari solo all’irresistibile attrazione che mi porta a cogliere, ad annotarlo, a memorizzarlo” (cfr. A. Ruccello, Perché faccio il regista, op. cit., p. 8).

Dunque il linguaggio che Ruccello definisce afasico, spento, insignificante, degradato diventa il riflesso delle storie che racconta. Questo italiano si può ricollegare alla lingua “stenta, scolorata, tetra, eguale” dell’ “uso piccolo-borghese” irrisa da Gadda (cfr. C. E. Gadda, Lingua letteraria e lingua dell’uso, 1942, in I viaggi la morte, Milano, Garzanti, 1958, pp. 93-99).
La deriva dei linguaggi, deriva di cui si faceva carico l’universo dei media della comunicazione proprio in quegli anni, emerge quindi con una perentorietà inedita nell’universo linguistico del teatro di Ruccello. È esattamente qui, in questa perdita, che l’autore affonda il suo sguardo. Per fare qualche esempio, ne Le cinque rose di Jennifer, si riproduce, attraverso quello strano “contatto” mediato dall’ascolto, lo scalcinato mondo delle radio private, reso mediante una disincantata parodia dell’uso anche strumentale delle confidenze private e della musica, con la fitta rete evocativa di canzoni che acquistano una loro allure particolare, nel processo identificativo della protagonista. Così in Notturno, Adriana appare inerme e quasi incapace (l’unica sua “arma” di difesa rimane il dialetto) di reagire alla prepotenza dell’artificio retorico della lingua iperbolica e altisonante con cui si esprimono gli “ospiti” del “supermarket 2001”. Per finire con la lingua degradata e caricaturale del monologo La telefonata, dove l’oralità vernacolare della tradizione dialettale appare contaminata dall’insulsa lingua di consumo dei mass-media.
Il risultato che scaturisce da questa musaica incastonatura di sistemi linguistici e idioletti tra i più disparati è una grande escursione polifonica nei vari linguaggi, che spaziano da quello antico, sonoro, materico del dialetto, anche delle fiabe orali e dei testi letterari del Seicento napoletano, ai gerghi artificiali della “lingua selvaggia” del nuovo standard.
Come si è detto, la deriva del linguaggio viene rappresentata dal degrado dell’oralità vernacolare della tradizione dialettale che appare contaminata dalla lingua di consumo dei mass-media. Il risultato è un linguaggio caricaturale saturo di metaplasmi, di storpiature di nomi, un impasto dialettale sonoro, corposo, ibrido ed eterogeneo che si avvicina alle forme dell’ “italiano popolare”, o “italiano dei semicolti” (una specifica varietà diastatica, caratterizzata dal basso grado di istruzione dei parlanti, indicata sempre più spesso con questa dizione specifica, a partire dal saggio di Francesco Bruni, L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, Torino, UTET, 1984, in particolare i capitoli III e IX).
Oltre all’emersione di tratti fonici propri della varietà dialettale del napoletano, come “haggio” (La telefonata ovvero “piccola tragedia minimale”, in A. Ruccello, Teatro, a cura di L. Libero, cit., p. 239), o “cozzeche” (ivi, p. 240), “butteglie” (ivi), si rilevano qui errori nell’accentazione, come “Morgàn” (p. 241), “compiutèr” (ivi), o infine lessemi con metaplasmi popolareschi come “’a radiattiva” (ivi) o “catarismo” (ivi, p. 244), forme con epitesi “Maiche” (ivi) e assimilazioni “Mazzigga e Ciccorobotte” (ivi). La creatività del linguaggio popolare si manifesta poi nel malapropismo “l’ulcera Guatemala” (ivi, p. 241) per “duodenale”: qui si attiva un meccanismo di “comico del significante”, “nel senso che la comicità è ottenuta semplicemente con i suoni, essendo ‘zero’ il significato” (cfr. M. L. Altieri Biagi, La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 33). In generale questo monologo appare decisamente connotato dall’adozione di un linguaggio figurale, evidente nell’uso di espressioni corpose dense di connotazioni metaforiche, come “s’eva arricciato cu sta pasta” (ivi, p. 240), “ce facettemo nu cuofeno ’e resate” (ivi, p. 241), “ ’E stesse uocchie belle ’a zennariello” (ivi, p. 243).
In molti testi, e in particolare nel monologo La telefonata, è poi presente l’accusativo preposizionale “Quanne fujeno ca io stevo incinta a Morgàn…” (ivi,p. 242), “e passami a mamma” (ivi, p. 244) e la sovraestensione del clitico dativale “ci”: “e passami a mamma un’altra volta finire di raccontare un fatto!...” (pp. 244-245). Molti i segregati vocalici, come “Mhm…” (p. 240 e 242), con cui si imitano i tipici procedimenti enunciativi della telefonata, come pure le interiezioni (del tipo Ah, Uh, Eh), che costituiscono un veicolo ad alto tenore stilistico della resa dell’andamento emotivo della parola del soggetto enunciante e sono rivolte ad orientare colui che ascolta, attirandone l’attenzione per scarto tonale.
Il registro comico, diversamente dagli altri monologhi dove appare di fatto sempre controbilanciato dall’elemento tragico, appare qui come movimentato da una sorta di oscillazione contraddittoria, tra la violenza verbale che la madre riversa sui figli e sui bambini dell’amica a cui bada, e i modi gentili con cui si rivolge nella telefonata alla nipote Raffaellina. La veemenza verbale si scatena in forme di invettive altamente comiche: “Maronna che ce teneno ste fetiente!.... Certi vvote, me cride?... ’E cceresse ’mparanza!... accussì comme stanno ovvì!... Arapresse ’a chiavina d’ ’o gass e ce facesse fa ’a fine ’e gli ebbreie…” (ivi, p. 241); “Ursula! Si n’ ’a ferisce ’e ’nquità a Marianna t’afferro e te spezzo tutt’e ddoje ’e vracce… ’A mutilatina ’e Don Gnocchi te faccio fa’… Ah nunn’ ’o ssaje chi è don Gnocchi?... È o frate ’e pasta cu ’a ricotta… Io po’ overo n’o saccio chi è stu don Gnocchi…. ’o ddiceva sempe mammà sta cosa!” (p. 244).
Sicuramente, dall’analisi dei testi del teatro di Ruccello, che appaiono così vari dal punto di vista degli aspetti stilistici e formali (si pensi ai due casi-limite di Ferdinando e Anna Cappelli), appare come sondato in profondità tutto il complesso dia-sistema della lingua italiana, un sistema non uniforme, anche per ragioni storiche dovute alla particolare assetto estremamente frammentato in kòinai regionali del nostro Paese. Così come appare scandagliato l’italiano e il complesso, vischioso rapporto con il dialetto, che, all’interno dei testi, diventa il riflesso di una realtà costantemente osservata da un attore-autore, incline a un’elaborazione artistica in progress, a partire dai corpi e dalle voci delle persone-personaggi.
In molte opere di Ruccello, nell’uso del dialetto si infiltrano poi gli echi di un passato ripreso analetticamente con la lingua, anche per misurare l’angoscia opprimente rispetto al presente: si pensi, in particolare, all’uso del dialetto come recupero onirico e simbolico del passato in Notturno e Week-end, in cui la lingua materna sembra deflagrare nei momenti di estrema angoscia di queste donne, che hanno perso tutto acquistando una nuova identità culturale, con il matrimonio o con la fuga dalla famiglia, ma non hanno perso la lingua appresa da bambine, il vernacolo puro e intatto che riaffiora nei punti di massima tensione delle tragedie di cui sono protagoniste.
Un caso assolutamente singolare è infine rappresentato dalla lingua del monologo Anna Cappelli. In questo testo, con una misura stilistica e una soluzione linguistica decisamente diversa rispetto alle prime, Ruccello sperimenta soluzioni formali veramente inedite. La presenza di un ductus franto, pieno di fatismi, interiezioni, incisi enfatici, ripetizioni, interruzioni, false partenze crea un ritmo dominato dall’emotività pulsionale dell’oralità. Si riscontrano infatti casi di accentuazione espressiva resa mediante varie modulazioni di raddoppiamento intensivo degli aggettivi: “sono stanca, stanca, stanca”; ma soprattutto molti schemi anaforici, in particolare con riprese verbali, con intrecci di repliche binarie e ternarie, sintomo della ridondanza del parlato-parlato: “Mi sembra… Mi sembra… Come dire la soluzione più giusta… Mi sembra…”; “Ha capito?!... Bastano i miei genitori! Basta la mia famiglia!... Mi basta quella farisea di mia sorella Giluiana… Non sono tenuta a darle spiegazioni! Vado a vivere con il ragionier Tonino Scarpa! E basta! Va bene così! E basta!”.
Nella fictio della spontaneità del parlato, che si sottrae alla linearità dell’espressione diretta della parola, le forme della morfosintassi parlata e soprattutto i fenomeni dell’oralità sono usati in funzione di una riproduzione mimetica della lingua viva, ma soprattutto come modulo rappresentativo del frantumarsi e del riavvolgersi della parola su se stessa. Oltre agli effetti di segmentazione della linea discorsiva, si riscontrano esempi di interruzione del costrutto per segnalare la reticenza della voce o cambi di progetto che si palesano nella esitazioni, segno dell’impossibilità di articolare bene il discorso per l’aumento dell’emotività; ciò è evidente in particolare per i casi di false partenze: “Sa, signora, sono molto, mi sono presa un’arrabbiatura con mio padre oggi per telefono!”.
Così la riproduzione del parlato, resa soprattutto attraverso l’imitazione delle spezzature, e del ritmo franto e sincopato della frase, transita attraverso la ricreazione scritta delle tinte emotive della parola, per i vari aspetti intonazionali della phoné, con i fenomeni di allegro, segno della velocità del parlato; inoltre grande incidenza nell’articolazione discorsiva del monologo sembrano avere le pause usate come sfondo per le successive risalite melodiche, contrassegnate a volte dalle battute sillabate per le esitazioni della voce: “È… È… È un contratto ecco e mi sembra che con questo contratto tu, tu un uomo, insomma, prende un impegno definitivo…”; “Insomma Tonino io ci…io ci… ci vorrei pensare un poco sopra affrontato anche prove molto difficili: l’incomprensione dei colleghi… il, il disprezzo della gente”; “… E... E… E… E perché non posso venire con te?”.
Considerando il registro usato, si evidenzia l’adozione di forme idiomatiche, automatismi e al contempo di locuzioni cristallizzate, caratterizzate da una spiccata usualità formulare (qui diversamente contrassegnate): “No, perché ormai siamo arrivate a buongiorno e buonasera! Stop!”; “Lei deve essere di quegli scapoli che Dio ce ne scampi e liberi!... Non, no, capisco, capisco, anch’io, sa, amo la mia indipendenza”; “Anzi mi fa piacere poter finalmente parlare con qualcuno che mi sembra un po’ superiore alla media…”; “Amore, per piacere la smetti di leggere il giornale e mi ascolti un momentino solo, per favore?”; “Non ho mai sollevato un problema… Ma adesso una cosina c’è … Un piccolo problemino ce l’ho…”.
Diversamente dalle altre opere, dove il dialetto è parte di un impasto particolarissimo, irto ed eterogeneo, qui la lingua di scena si orienta decisamente verso altre e inedite soluzioni formali, come dimostra l’opzione per un italiano basico, stinto e costruito sfruttando la ricca tastiera delle frasi fatte e degli automatismi della lingua dell’uso medio, segno (forse?) di un cambiamento di rotta operato da Ruccello. Se pure si riscontrano tratti regionali, che affiorano però in scarse occorrenze – “Cosa crede, signora, che a me faccia piacere stare in questo paese a gettare il sangue tutti i santissimi giorni”; “tutta la polvere di Latina pare pare stia dentro a quel municipio schifoso!”; “Si figuri come mi fa piacere di sentire di sentire un po’ di odore di pancetta!” - tuttavia queste scelte formali sono immesse in un italiano medio, che imita le cadenze dell’oralità a tal punto da non sembrare un monologo di genesi scritta o comunque scritto per essere recitato. Sicuramente, dal punto di vista delle scelte stilistiche, il monologo occupa una posizione unica all’interno del corpus delle opere di Ruccello. Se la morte non avesse stroncato la sua giovane e fulminea carriera probabilmente avremmo avuto altri esemplari da comparare a questo testo, che esibisce un avvicinamento ponderoso alla lingua dell’uso medio. La lingua di scena di un testo innovativo e sperimentale anche sul piano tematico e strutturale, come Anna Cappelli, fa registrare solo poche opzioni dialettali. Infatti anche rispetto agli altri testi, qui il dialetto rimane solo una “patina”, mentre quello che è veramente interessante è la sapiente costruzione della fictio del parlato come pure le scelte linguistiche, che risultano orientate decisamente verso l’uso medio dell’italiano. Del resto, che Ruccello fosse attirato da questa nuova frontiera della sua ricerca teatrale, che è sempre e comunque vissuta nel segno della sperimentazione, lo si legge del resto anche in queste importantissime sue dichiarazioni:

”Questo linguaggio [l’italiano] così appiattito, così brutto, è quanto di più sgradevole mi è dato subire acusticamente… La repulsione che mi ispira è pari solo alla irresistibile attrazione che mi porta a coglierlo, ad annotarlo, a memorizzarlo per poi riciclarlo in un’ambiguità di sentimenti che ancora devo riuscire a decifrare” (Cfr. A. Ruccello, Perché faccio il regista, “Sipario”, marzo-aprile 1987, 466, p. 78).

Per tutti questi aspetti, Annibale Ruccello occupa un posto decisamente unico nel panorama del teatro moderno e contemporaneo, come pure, più in generale, rispetto alla drammaturgia nazionale (come si evince anche dal quadro complessivo che emerge nel saggio di M. D’Amora, Se cantar mi fai d’amore… La drammaturgia di Annibale Ruccello, Introduzione di Antonia Lezza, Roma, Bulzoni, 2012).
Non solo, per tutto quanto resta ancora da analizzare e per quanto la critica ha verificato sinora, l’etichetta di “post-eduardiano” applicata spesso a Ruccello, come del resto agli altri drammaturghi della sua generazione, va a questo punto necessariamente superata. La definizione di “post-eduardiano”, com’è noto, è stata spesso adottata dalla critica contemporanea a partire dal saggio di Luciana Libero, intitolato Dopo Eduardo. Nuova drammaturgia a Napoli (Napoli, Guida, 1988), raggiungendo, probabilmente anche in forza della facile funzionalità della formula, una pervasività tale da imporsi in vari manuali teatrali, come per esempio indica la presenza della stessa denominazione nell’importante saggio di Ariani-Taffon (Scritture per la scena. La letteratura drammatica nel Novecento italiano, Roma, Carocci, 2001). Questa definizione, però, se pure può risultare valida per individuare dentro i margini del contesto napoletano autori della medesima generazione – se non altro accomunati dalla stessa area geografica di provenienza – si rivela, malgrado ciò, abbastanza fuorviante e probabilmente riduttiva, se si analizzano a fondo i temi, gli impianti strutturali delle commedie e i diversi usi dei linguaggi, così come emergono dal confronto dei testi degli autori in questione.
Del teatro di Ruccello resta ancora molto da sondare, se solo si pensa al peso che nel corpus delle sue opere occupa la riscrittura, un genere caratteristico più di ogni altro della modernità, soprattutto se si considerano anche le esperienze più o meno coeve di Pasolini, in primis, e poi di Testori, Moscato, Santanelli, Silvestri, Chiti. Da D’Annunzio a Diderot, passando per i miti classici di Apuleio fino a Moravia, la riscrittura diventa un segno costante, permanente, che viene a marcare in un modo veramente incisivo il breve percorso della produzione di Ruccello. Un altro aspetto ancora ricco di spunti di ricerca è poi la strana affinità tra il messaggio di Pasolini e i temi, come addirittura le riflessioni teoriche e metalinguistiche di Ruccello.
Il tòpos fondamentale che domina in molte delle sue opere, come di è detto, è in fondo la perdita d’identità, sessuale, culturale, sociale e anche linguistica. E poi la crisi di valori e di ideologie che è anche crisi del linguaggio; un linguaggio che si esprime per rotture e crolli linguistici, per frantumazione di segni e incomprensioni. In questi testi c’è in fondo traccia della ricerca antropologica di Ruccello, che soprattutto nei primi anni della sua formazione indaga sui rapporti tra la cultura ufficiale e la molteplicità delle culture popolari, soffermandosi in particolare sull’analisi della contaminazione tra il linguaggio granitico e asfittico del potere e il linguaggio frammentario e simbolico degli “ultimi”, tra il linguaggio standardizzato della pubblicità e il linguaggio “afasico, spento e insignificante” delle masse inurbate (A. Ruccello, Perché faccio il regista, “Sipario”, cit.). Protagonisti delle sue opere sono poi quasi sempre personaggi disturbati e nevrotici, sradicati dalla cultura di appartenenza e dalla loro lingua madre e relegati ai confini di una cultura del potere, ai margini di una metropoli lontana dal progresso. Analogamente, come Pasolini, anche Ruccello è interessato a cogliere attraverso i temi e le figure del suo teatro i segni di un mutamento sociale che proprio negli anni Settanta e Ottanta stava avvenendo in Italia. Condivide con lo scrittore friulano soprattutto l’idea di progresso, di società di massa, di mercificazione totale e soprattutto di omologazione, che dominano negli scritti teorici di Pasolini (si pensi a Scritti corsari che in quegli anni rappresentano uno dei rari esempi di critica intellettuale alla società sviluppata). Come Pasolini, Ruccello vuole cogliere il disagio e lo spaesamento dovuto all’inurbamento forzato di quell’ “Italietta piccolo-borghese” (Cfr. P. P. Pasolini, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Id., Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1990, pp. 51-54; la citazione è pag. 51). Così per la lingua. Pasolini in molti dei suoi scritti teorici riflette che proprio in quegli anni si sta verificando:

”un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano, o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva” (ivi, p. 54).

Insomma, la denuncia della scomparsa dei miti collettivi, lo sfaldamento delle reti sociali di appartenenza, la perdita del sistema di protezione tradizionale, dal villaggio rurale alla famiglia, la sottrazione e la privazione del fantastico, i processi di trasformazione dell’immaginario collettivo sono come per Pasolini, in estrema sintesi, anche i temi portanti del teatro di Ruccello, che, attraverso una prospettiva particolarissima, quella dell’antropologia, si interroga sul punto di rottura di un’identità collettiva. Anche in fatti minimali e in cornici banali il malessere dell’uomo moderno può essere rappresentato nel tragico confronto tra individuo e società, tra uomo e mondo: in questo dissidio, la perdita d’identità può essere colta ora nella sfera della psiche, ora nella sfera dell’eros ora nella competenza linguistica.
Per tutti questi aspetti, si può concludere affermando che il teatro di Ruccello è, per tanti aspetti, un “teatro antropologico”, che si inserisce anche per questo nella tradizione tracciata da Pasolini. Su questo legame, lo si ribadisce ancora una volta, resta ancora molto da indagare, a partire dagli aspetti fin qui accennati, fino a considerare le letture (la famosa “biblioteca” di Ruccello, custodita ancora intatta dalla madre), che l’autore stabiese ha in comune con Pasolini, con lo straordinario background di studi antropologici, dalle letture dei classici latini a quelle di antropologi contemporanei (tra cui De Martino e Kerényi), fino all’antropologia psicanalitica di Freud e Jung.
Su una possibile interrelazione tra i due autori si è soffermata infine Franca Angelini, che parlandoci dell’eredità del nuovo teatro napoletano, non ha mancato di sottolineare con grande acutezza questa filiazione, che rimane ancora per molti aspetti da sondare:

”L’odierno spettacolo napoletano ricambia l’attenzione e l’interesse di Pasolini e raccoglie, unico in Italia, la sua eredità. Il cinema di Martone, i teatri di Manlio Santanelli, Annibale Ruccello e Enzo Moscato, impropriamente etichettati come post-eduardiani, mostrano maggiori punti di contatto invece con Pasolini (tutto lo scrittore, e anche l’uomo): per la scelta di situazioni e personaggi dichiaratamente tragici, per la scelta dell’emarginazione come luogo dell’indagine, per i travestimenti, le ambiguità sessuali, una lingua espressiva e antinaturalistica. È un complesso di connotati drammaturgici e linguistici che, con richiami più o meno diretti, prosegue quel teatro di poesia che Pasolini ideò in anni ormai lontani e che oggi sembra trovare il momento migliore per la sua attuazione” (Cfr. F. Angelini, Affabulazione di Pier Paolo Pasolini, in Letteratura italiana (diretta da A. Asor Rosa), Il secondo Novecento. Le opere dal 1962 ai giorni nostri, XVII, Torino, Einaudi, 2007, pp. 501 554, la citazione è a p. 548).