Annibale Ruccello
a cura di Carmela Lucia
E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!
A. Ruccello, Ferdinando
a cura di Carmela Lucia
E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!
A. Ruccello, Ferdinando
Dopo gli studi classici a Castellammare, Annibale Ruccello si laurea all’Università di Napoli “Federico II” in Filosofia, nel 1977, specializzandosi in Antropologia culturale con una tesi (successivamente pubblicata con il titolo Il sole e la maschera: una lettura antropologica della Cantata dei Pastori) discussa con l’antropologo Lombardi-Satriani. Assunto alla Sovrintendenza con un regolare concorso, si dedica agli studi antropologici e inizia a pubblicare importanti saggi sull’immaginario religioso e antropologico del popolo napoletano. In questo intenso periodo di studi, Ruccello matura specifiche competenze nell’ambito delle ricerche sul folklore e sulla cultura popolare della sua terra d’origine. In sostanza, sarà proprio l’amore per le tradizioni napoletane, unitamente all’interesse per la ricchezza della parola e del dialetto partenopeo, che segnerà, proprio a partire da questa fase, un’impronta indelebile nel suo teatro. Dal 1974 Ruccello inizia a interessarsi alla produzione della Nuova Compagnia di Canto popolare e all’opera del regista-musicologo Roberto De Simone. In particolare dal 1975 al 1978 collaborerà con il maestro, dedicandosi agli studi di antropologia e svolgendo interviste secondo le metodologie di ricerca della disciplina in cui Ruccello si stava specializzando. Si datano in questi anni i saggi sulla Commedia dell’Arte, le riflessioni sugli itinerari del teatro del Cinquecento, le analisi sugli strumenti musicali tradizionali, le ricerche sul folklore napoletano e sulle sue rappresentazioni tradizionali, come per esempio il presepe e finanche uno studio sui pupi conservati nel Museo di San Martino. Grande rilievo assume il folklore religioso, per l’attenzione critica che Ruccello dedica in particolare agli aspetti misterici della ritualità popolare, come, per esempio, la festa della Madonna delle Galline a Pagani (i testi dei saggi di Ruccello sono riportati nel volume: A. Ruccello, Scritti inediti. Una commedia e dieci saggi, con un percorso critico di Rita Picchi, Roma, Gremese Editore, 2004).
Durante questa fase (e precisamente dal ’75 al ’78), Ruccello lavora al recupero delle forme estinte del canto popolare, come le villanelle del Cinquecento con la Nuova Compagnia di canto popolare (nata nel 1967) e si interessa anche di tradizione musicale, comparando i documenti ufficiali (musicali e letterari) con le tracce sopravvissute nei rituali contadini. Da qui nasce il testo della Cantata dei pastori, un “mistero” e dogma della tradizione cattolica, contaminato da aspetti magici e simbolici della cultura popolare (in particolare del Seicento napoletano), poi rivisitati dal gesuita Perrucci. Questa prima opera sarà rappresentata al Teatro San Ferdinando nel 1974 ed è oggi conservata negli archivi Rai, nella rielaborazione registrata nel 1977.
L’incontro con il maestro Roberto De Simone coincide con un momento di maturazione molto significativo per Ruccello, che dichiara, nella nota intervista di “Sipario” (pubblicata postuma, nel numero di marzo-aprile 1987), di sentirsi in realtà “post-desimoniano”, piuttosto che “post-eduardiano”, affermando di aver attinto da questo modello le figure archetipo della tradizione antropologica e l’idea di una “drammaturgia dei corpi” fatta di suoni più che di contenuti:
“[…] io ho lavorato con Roberto De Simone, anche se non in teatro, ma per le ricerche antropologiche, dal ’75 al ’78. Inoltre ho seguito i suoi allestimenti dal di dentro, tutta la Gatta Cenerentola dall’inizio alla fine. E poi c’è una scelta di De Simone che mi trova d’accordo: lui ha individuato consapevolmente una comunicazione che è più fonica che contenutistica. Ed i miei personaggi non comunicano mai per contenuti, comunicano per forme, per linguaggi. […] Quasi sempre, scrivo già per dei corpi precisi. Anche se poi questi corpi cambiano, comunque già la mia costruzione scritta tiene conto di una persona precisa, di un modo di parlare suo proprio. Così è l’attore a dare al personaggio alcune sue caratteristiche, già prima dell’interpretazione […] Anche questa è una caratteristica che era di De Simone, di scrivere a partire dalle dinamiche tra attori, tra corpi degli attori, che mi ha guidato sul come applicare una regia su un attore, su una sensibilità. E così è più facile riuscire a far recitare molto di più, e meglio, delle persone, piuttosto che costringerle ad una tipizzazione sterile, poco produttiva per l’attore che per lo spettacolo” (Cfr. G. G. e L. G., Ruccello, Una drammaturgia sui corpi, “Sipario”, n. 466, marzo-aprile, 1987, pp. 72-73).
In un’altra intervista, insisterà non solo sul rapporto di filiazione rispetto al modello di De Simone, ma anche sulle specifiche differenze: diversamente dal maestro, che “tende a un musicale tornito”, Ruccello dichiara, infatti, di orientarsi piuttosto verso “un musicale scassato, un musicale […] minimale” (A. Ruccello, Perché faccio il regista, “Sipario”, marzo-aprile 1987, 466, p. 78). In realtà appare molto interessante questa capacità di cogliere e sintetizzare la differenza tra il teatro desimoniano e il suo attraverso la metafora musicale, metafora che del resto ricorre a più riprese nelle sue riflessioni critiche, come per esempio nelle note di regia pubblicate in occasione della prima edizione dello spettacolo di Ferdinando:
“[…] Ogni tema ha la sua voce ed il suo strumento, che sono la voce e lo strumento stesso del personaggio che evocano. E così Ferdinando è un tenore e clarinetto, Donna Clotilde è un soprano e un flauto, Donna Gesualda un contralto e una viola e don Catello un basso e un violoncello. Abbiamo così voluto evidenziare la natura musicale dell’intera operazione concepita anche come dramma di linguaggi, di parole, pensate come una partitura musicale” (A. Ruccello, Ferdinando, “Sipario”, marzo-aprile 1987, 466, pp. 81-98; le note di regia sono a p. 81).
Questi importanti documenti comprovano quanto Ruccello sia stato anche attento a valutare e a giudicare gli aspetti della sua drammaturgia, dal momento che ha operato una lettura critica abbastanza analitica anche delle ascendenze teatrali delle sue opere. Tra i suoi modelli di riferimento, si impone, dunque, la lezione di De Simone da cui l’autore stabiese apprende la ricerca sulla cultura musicale e teatrale del Cinque e del Seicento, che si traduce sulla scena in un’osmosi inscindibile tra cultura alta e cultura bassa, con la conseguente commistione tra l’orrore tragico del barocco e la solarità di una certa cultura comica ottocentesca. Inoltre, rispetto a questo modello Ruccello recupera come una sorta di modus operandi, vale a dire quel lavoro sui corpi e sull’individualità dell’attore, considerato come il depositario di specifici linguaggi su cui il regista deve lavorare.