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Autori - Annibale Ruccello

Annibale Ruccello

a cura di Carmela Lucia

 

E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na parola Napoletana chiantuta ca tutte li vocabole de la Crusca!

A. Ruccello, Ferdinando

Gli esordi

Nel 1974 il giovane Ruccello vede al San Ferdinando la riscrittura della Cantata dei Pastori di Andrea Perrucci diretta da Roberto De Simone e dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare. Assiste poi, in qualità di uditore, alle prove della Gatta Cenerentola (1976), che approderà nel 1977 in televisione, alla Rai, in una versione a cui contribuirà lo stesso Ruccello. In questa occasione conosce anche la famosa attrice Isa Danieli, che interpreterà la parte della protagonista, Donna Clotilde, in Ferdinando.
Nel 1976, durante il Natale, Ruccello rappresenta una rilettura della Cantata dei pastori, insieme al gruppo de “I dodici Pozzi”, poi ribattezzato “Il Carro”; ne fanno parte alcuni tra i suoi più importanti e fedeli collaboratori: Lello Guida, Carlo de Nonno, Francesco Autiero e Vanni Baiano. Ruccello interpreta la parte comica dello scrivano Razzullo.
In sostanza, dopo le prime esperienze nei teatrini napoletani, dal “Na Babele Theatre” al “Sancarluccio”, gran parte della produzione dell’autore stabiese sarà segnata dall’esperienza cooperativa con la compagnia da lui diretta e la sperimentazione con il Teatro Nuovo, scelto come sede stabile della compagnia, nonché luogo d’eccellenza dove poter produrre e provare la sua produzione teatrale.
Ma il 1976 è anche l’anno in cui è datata la stesura del “cunto”, la prima scrittura a quattro mani con Lello Guida, intitolata l’Osteria del melograno: tra i modelli di riferimento si annoverano senz’altro La gatta Cenerentola e Lo cunto de li cunti di Basile, un repertorio antropologico fiabesco e mitico della cultura napoletana da cui i due autori mutuano motivi, temi, tecniche rappresentative e scelte stilistiche.
Sicuramente, sin dagli esordi l’impegno di Ruccello si traduce nella volontà di indagare nel contesto di un milieu antropologico e culturale specifico, che trova le sue coordinate storiche e geografiche nel patrimonio delle tradizioni napoletane, come testimoniano del resto le numerose interviste, che, come si è detto, si possono considerare una miniera inesauribile in cui è possibile cogliere tutta la riflessione meta-teatrale (e non solo) che accompagna l’attività della scrittura drammaturgica. In una di queste interviste leggiamo infatti una sorta di manifesto poetico del teatro allora nascente di Ruccello:

“Noi speriamo con i nostri lavori di fare un discorso che serva a far luce sia sull’utilizzo che oggi si può fare di una serie di fatti popolari, sia su dei meccanismi inconsci che, se la psicanalisi ha scoperto non sono pur tuttavia divenuti patrimonio consapevole della gente. […] Con l’Osteria, ad esempio, tramite il meccanismo popolare della fiaba abbiamo messo in scena la conflittualità del rapporto fra uomo e donna, le sue implicazioni edipiche, le schizofrenie che oggi storicamente vive tale rapporto: tutto questo affidato a una forma riconoscibile, perché da tutti assimilata nei primi anni dell’infanzia, per cui il discorso si è allargato ai meccanismi della fiaba, alla culturalizzazione delle angosce, ecc.” (Cfr. Intervista ad Annibale Ruccello, in G. Laurini, Una scuola sul “Carro”, “Telecorriere”, 29 aprile 1979, p. 7).

All’inizio della carriera, la ricerca di Ruccello coincide dunque con un radicale ripensamento critico di tutto il vasto repertorio culturale campano. Inoltre, questa intensa fase di indagine sarà anche connotata da una forte progettualità, propria di una strategia impegnata, da “teatro militante”, così tipica della stagione degli anni Settanta. A tal proposito, in un’altra significativa intervista si legge un’importante testimonianza in cui l’autore stabiese parla, in termini veramente entusiastici, del progetto cooperativistico della sua compagnia:

”del lavoro, in una parola, di aggregazione sociale e culturale che questa quarantina di ragazzi da tempo porta avanti in una provincia come quella di Napoli completamente sprovvista – per lo più – di strutture e di spazi idonei. Lo sforzo del gruppo è infatti teso a trovare nuovi contenuti nel ‘fare teatro’ oggi, secondo discriminanti politiche e culturali precise, seguendo linee metodologiche che si articolano sul modello del lavoro collettivo, teso all’apertura democratica e quindi a qualsiasi tipo di proposta sempre verificabile” (Cfr. M. Ciarnelli, San Giuseppe fuma (nervoso) in scena mentre la «cantata» gira in periferia, “l’Unità”, 21 dicembre 1978).

La cooperativa, che si organizza in una sorta di “collettivo” dove si coniugano responsabilità creative, produttive e culturali, diventa la nuova misura della compagnia, una forma di organizzazione del lavoro inconsueta e innovativa, in cui Ruccello, collaborando attivamente con Lello Guida e de Nonno, sceglie di essere anche attore, condividendo quindi il suo progetto con una cooperativa da cui nascerà, dopo varie prove e ristrutturazioni, lo “Stabile d’innovazione Nuovo Teatro Nuovo”.
Proprio in questa intensa fase di ricerca – come Dario Fo, Leo Berardinis e Perla Peragallo, Giuliano Scabia, Claudio Morganti, Eugenio Barba – Ruccello sperimenta i confini del teatro dialettale, delle lingue “altre” e subalterne, dell’incolto e del popolare. S-confina, come Moscato (e per usare una dizione diffusa da Moscato), nei margini della lingua, quella dei reietti, dei “paria” della società, appartenenti alla dimensione culturale del mondo contadino, ma poi costretti, una volta usciti da questo, a omologarsi a una “lingua straniera”, l’italiano che non gli appartiene, nelle forme, come negli ideologemi (come testimoniato in Ferdinando). In ogni modo una caratteristica costante soprattutto di questi testi che segnano l’esordio della drammaturgia di Ruccello appare la passione per l’orizzonte magico, antropologico e rituale del profondo Sud, di cui l’autore con una sensibilità acutissima, riesce a recuperare i valori simbolici, arcaici e mitici. Così come per Testori e Pasolini, la cultura del mondo a cui Ruccello appartiene diventa la prima matrice che impronta di sé tutto il suo teatro, senza la quale, inoltre, non sarebbe immaginabile quello che ne è derivato poi, con i testi più famosi. In fondo, già a partire dalla trilogia d’esordio, che comprende la Cantata dei pastori, L’osteria del melograno e L’asino d’oro (poi ribattezzato Ipata) emerge quella inconfondibile cifra stilistica che caratterizzerà tutto il suo teatro: vale a dire quello straordinario mèlange tra antico e nuovo, tra corpo, scrittura e suono che si ibridano in un teatro antropologico-musicale di matrice campana e che appare già dalle prime prove solidamente sperimentale, impastato di citazioni letterarie, contaminato con le tradizioni popolari, ma al contempo raffinato e colto, nonché aperto alle sollecitazioni del teatro internazionale.