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Enzo Moscato - Articoli scelti

Enzo Moscato

a cura di Isabella Selmin


Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.

E. Moscato

 

Moscato, anima e cuore di Napoli

L'applaudita performance Compleanno, nell'ambito del convegno dedicato alle lingue del teatro.
Impetuoso monologo allo Zanon del più trasgressivo erede di De Filippo e di Viviani.

Udine. È forse l'autore più irriverente e dolente della nuova scena teatrale partenopea, l'erede più trasgressivo della grande scuola di Eduardo e Viviani, eppure Enzo Moscato, protagonista l'altra sera allo Zanon di Udine di un suo lancinante e applauditissimo monologo Compleanno per il convegno delle Lingue del teatro, sembra riassumere nella sensibilità dell'oggi tutto quel patrimonio di arte e di espressività: uniche, come unica è Napoli con la sua naturale, congenita teatralità.
E su quel palcoscenico straordinario di umilità e passionalità Moscato mette in scena i suoi fantasmi, il suo immaginario intriso di napoletanità cui però convergono, spesso travolti, gli echi strazianti e dolorosi della contemporaneità. Così, per questo suo Compleanno, è la nenia querula e infantile di Susan Vega a fare da dispettoso contrappunto a una festa immaginata e raccontata, vissuta nelle parole e nelle immagini, dove i gesti della quotidianità (le candeline, il brindisi, il trucco) si caricano di enfasi drammatica, plateale, dietro la quale nascondere il vuoto e il silenzio di una solitudine sin troppo rumorosa di sogni e fantasie, di passioni dirompenti ed emozioni incontenibili.
Riso e pianto, farsa e tragedia si mescolano nei racconti con i quali Moscato riempie questa festa di compleanno, rivolgendosi a un festeggiato sconosciuto, che una sedia ricoperta di tulle rosso (povero trono da teatro guittesco) evoca, ma non definisce. Non sapremo mai chi è il destinatario di tanto amore, di tanta attenzione (certo Moscato lo ha dedicato a un altro vivacissimo interprete della renaissance del teatro napoletano, Annibale Ruccello, morto anni fa in un incidente d'auto). Quello però che ci rimarrà nella mente e nel cuore è la travolgente umanità che sgorga, barocca e impetuosa, sboccata e disperata, dai racconti di Moscato.
E sono personaggi femminili, di una femminilità lacerante e lacerata: c'è la protagonista cartesiana di una fantomatica telenovela, la cui figlia, Spinoza, si inguappa e si perde in trame oscure e melodrammatiche (irresistibile e ironica presa in giro di tanto narrare televisivo odierno), ma c'è anche il racconto, come in altri spettacoli di Moscato (Luparella, soprattutto), di una femminilità perduta, nei bordelli di Toledo o dei quartieri spagnoli; e ancora la femminilità repressa che esplode in fantasiosi incontri con uomini turpi e depravati.
E poi c'è il rituale del canto e del ballo, la musica caciarona di un tango spagnolo, citazione appropriata del primo trasgressivo Almodovar, o la musica avvolgente di una melodia popolare o di una canzone francese. E su tutto lui, Moscato, la sua voce che è strazio e malinconia, continuamente rimossi in un gioco di finzione teatrale, che è senso e coazione a ripetere, quasi non ci fosse realtà più vera e giusta di quella della scena.

MARIO BRANDOLIN, "Messaggero Veneto", 15 ottobre 2000.