Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
"Napoli, Venezia e Parigi si incontreranno nel segno dell'acqua, quella del Golfo, della Laguna e della Senna, che lo scenografo Paolo Petti ha intrecciato in un gioco di tracce ambientali, in cui saranno immerse queste Doglianze degli attori a maschera". Enzo Moscato inquadra così la propria rilettura goldoniana che debutta stasera alla Biennale diretta da Maurizio Scaparro. Due giorni di repliche e una lezione su "Goldoni e Napoli, fra tradizione e riscrittura" (con interventi anche dei docenti partenopei Antonia Lezza e Pasquale Sabbatino), prima di fare rientro in Campania dove lo stesso allestimento aprirà "Benevento Città Spettacolo" il 31 agosto e farà tappa al Mercadante dall'8 al 13 gennaio.
Come è saltato in mente a Moscato di mettere le mani nientedimeno che su Goldoni, il padre sacro del teatro moderno italiano ed europeo? "Non lo avevo mai frequentato troppo, ma due anni fa Scaparro, in occasione della mia partecipazione con Niezi al Carnevale veneziano sulla Cina, mi parlò di questo progetto. Ho preferito indagare sulle sue opere minori". Un modo per sentirsi più libero nell'opera di trasformazione? "Diciamo per trovare un qualcosa di buffo e curioso, in grado di stimolare la mia attitudine alla reinvenzione". Cosa ne è venuto fuori? "Mi ha molto colpito Il Molière, un testo del 1751, in cui con un gioco di doppia teatralità interna, Goldoni riaffrontava la questione, a suo tempo ancora attuale, del presunto matrimonio incestuoso del commediografo francese con la giovane figlia della sua amante storica Bejart, che in molti ritenevano concepita dallo stesso Molière. Cosa peraltro rivelatasi col tempo inesatta, essendo le due donne sorelle e non madre e figlia". Un tema serio e pruriginoso, da affrontare con le molle... "Sì, che Goldoni, riportando al proprio tempo la questione, affrontava pateticamente, accostandola parallelamente ad una messa in scena del Tartufo (ecco il teatro nel teatro), e che invece io ho voluto spingere sul versante estremo della sua ridicolaggine. Anche perché noi siamo napoletani e siamo figli della farsa (da Petito a Scarpetta) più che della commedia".
Uno spettacolo tutto da ridere quindi? "Non c'è dubbio, con un intreccio linguistico alla mia maniera in cui il napoletano si incrocia col lombardo, il veneziano, il ciociaro, il francese e così via, ed in cui le musiche vanno dalle canzoni dagli anni '60 fino a Mahler. Perché va recuperata la leggerezza, che non significa il nulla della barzelletta fine a se stessa ma neanche il gravame di un certo intellettualismo scenico troppo criptico".
Stefano DE STEFANO, "Corriere del Mezzogiorno", 28 luglio 2007.