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Enzo Moscato - Articoli scelti

Enzo Moscato

a cura di Isabella Selmin


Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.

E. Moscato

 

Moscato e l'epidemia del teatro

"Lingua, carne, soffio" è il titolo del lavoro ispirato ad Artaud. La scena imita il ring

Lingua, carne, soffio cinque anni dopo, ovvero tornare ad Artaud per celebrare l'ennesimo tentativo catartico, l'ennesimo rito sacrificale dell'attore contro la permanenza latente della peste, del morbo metaforico e ancestrale per eccellenza. Enzo Moscato, in scena alla Galleria Toledo, fino a domenica 11 marzo, riprende così una delle messe in scena più intense, come sempre circolare e reiteratamente avvolgente. Un omaggio all'epica tragicità della terra partenopea, ma soprattutto ad Artaud, l'autore che più d'ogni altro ha saputo influenzare la sua evoluzione di scrittore e di interprete di teatro. Un percorso come ribadisce sempre Moscato, di natura sostanzialmente letteraria, che parte da testi come Il teatro ed il suo doppio per affermare ancora oggi il sostanziale rifiuto per una forma elegiaca del "fare dell'arte", rifiuto già tutto presente nella poetica dello scrittore di Marsiglia. Proprio dall'introduzione al testo di Artaud, quella che cita la peste che si diffonde da Marsiglia a Cagliari, Moscato prende le mosse, "estendendo" l'epidemia a tutti i grandi porti del Mediterraneo, Napoli compresa. E proprio in un lazzaretto napoletano, quello metastorico e metatemporale costruito con stracci bianchi sulle tavole della Galleria Toledo, si svolge l'azione, o meglio la celebrazione della "Peste…. zipesta,… pesta pe'", come tutti i protagonisti vanno ripetendo in una sorta di lingua liturgica, ossessiva, intimamente squassante. Al centro della scena campeggia una sorta di ring formato da quattro leggii legati fra loro da una corda annodata. Tutt'intorno la ronda degli "infetti": uomini, ermafroditi bifronti, bambini: sono fasciati di bianco, bendati e imbavagliati. L'effetto è fortissimo, asetticamente suggestivo nella sua antitesi ai fasti del barocchismo sentimentale vesuviano, di cui sembra raccogliere i resti, gli scarti, le citazioni. Come le canzoni, sempre presenti nelle opere di Moscato, autentici momenti di spiazzamento atmosferico, in grado di demolire in un sol colpo le tensioni accumulate durante un inserto rappresentativo.
Stavolta fra i malati si nasconde un "piazzista", imbraccia la chitarra e intona Fenesta ca luciva. 'Na cartolina e' Papule, la filastrocca di Carnevale si chiama Vincenzo, una delle tante Osterie e infine la marchette degli arditi fascisti. I compagni di scena appaiono indifferenti nella loro silenziosa sofferenza, non replicano alle sollecitazioni dello chansonnier. Tornano piuttosto a parlare di teatro, a sottolineare le iperboli della vita che si fa rappresentazione. Le parole sono di Moscato, ma il filone resta ancora una volta solidamente ancorato ad Artaud, che non a caso scriveva: "È di cardinale importanza che si abolisca il Mondo Vero. È esso che crea i grandi dubbi e che diminuisce il valore del Mondo che siamo: è stato finora il nostro più pericoloso attentato alla vita". Anche Lingua, carne, soffio sembra ripartire da qui, dalla soggettività della rappresentazione dove esistenza e recitazione sembrano confondersi e accavallarsi senza soluzione di continuità. Lo sanno bene i compagni di scena di Moscato, la sua grande famiglia, come lui stesso ama definirla, Enzo, Ciro e Salvio Moscato, Tata Barbalato, Gino Grossi, Carlo Guitto, Giuseppe Scovito. E ancora Francesco, Peppe e Gianki Moscato, ed il piccolo Giuseppe Affinito. In chiusura una superba interpretazione di Mina suggella col Magnificat questa vigorosa parabola epidemica.

Stefano DE STEFANO, "Corriere del Mezzogiorno", 3 marzo 2001.