Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
I rumori, le voci, le grida e i suoni di Napoli. Sul palcoscenico di un teatro l'autore dichiara di essere morto. Di fronte ad un sipario che non si apre mai, ma scorre come una marea, vari personaggi noti e ignoti si animano e raccontano il loro frammento di storia prima di ripiombare nell'oblio o nel silenzio della morte. Ogni tanto l'autore canta una tipica canzone napoletana, e alla fine viene riassorbito dal sipario che, come un rosso sudario, avvolge e cancella tutto. Si odono di nuovo i suoni confusi della città.
Rasoi è un film nato per caso, che è sempre parente stretto della necessità. Mario Martone che desiderava registrare la memoria di uno spettacolo bellissimo e glorioso che non sarebbe probabilmente più stato ripreso, ha potuto usufruire degli spezzoni di pellicola rimasti dalla lavorazione di Morte di un matematico napoletano, ed ha avuto il Teatro Mercadante a disposizione per tre giorni. Il mediometraggio che ne è risultato ha trovato altrettanto per caso (e per la meritoria politica della Mikado) la via delle sale cinematografiche a beneficio di chi lo spettacolo non lo ha visto o di chi lo vuole rivedere.
Detto questo, è facile capire l'atteggiamento con cui Martone si è accostato ad un testo così forte come quello di Enzo Moscato, e abbia deciso di non sovrapporre il linguaggio cinematografico a quello teatrale, cercando di rendere quasi inavvertibile la presenza della MDP e piegando il visto alle esigenze del detto.
Gli interventi in questo senso sono minimi: l'uso del primo piano e del dettaglio esalta e sottolinea il momento (che emozione quella Madonna che d'improvviso si anima, miracolo che già a teatro avveniva e che al cinema è amplificato) e il piano sequenza surroga l'effetto di uno spettacolo strutturato in un unico atto. L'immagine iniziale del vicolo e della città dà corpo alla colonna sonora, alla cacofonia di urla, strepiti, rumori metropolitani che anche in teatro apriva lo spettacolo sul sipario chiuso e che resterà continuamente tale, limitandosi a scorrere come una risacca marina (il mare latrina è uno dei protagonisti della pièce) e ricoprendo a giusta guisa di sudario la memoria (morta come l'autore) che si anima e prende vita per meno di un'ora davanti ai nostri occhi.
Rasoi è composto da brani estratti da opere preesistenti del commediografo Enzo Moscato (il più importante, assieme al compianto Annibale Ruccello della nuova generazione dei drammaturghi napoletani), come Partitura, sul soggiorno e la morte di Leopardi a Napoli, e da altri espressamente scritti, come la splendida tirata Litoranea, detta in modo superbo, tra il fine dicitore di petroliniana memoria e i Merola dei bassifondi da Tony Sorvillo, co-regista dello spettacolo. Rasoi grida, inveisce, parla di Napoli e su Napoli, città chiavica e latrina, spremuta e sfruttata (l'episodio delle prostitute ingannate dai dominatori spagnoli e francesi con l'uso di parole straniere e altisonanti), città tabù come definita da una frase di Pasolini messa in epigrafe, con l'insanabile contrasto tra una modernità impostale ed una memoria non ancora rielaborata.
Martone scrive, in riferimento a questo conflitto: la città tribù che un poeta può ancora evocare attraverso canti e racconti non c'è più, infatti, a Napoli, o piuttosto vi sopravvive in chiazze sempre più esigue, come le tracce di un affresco corroso dal tempo e dall'umidità. Ma questa città è un "luogo immaginario" che sopravvive dentro i napoletani (da molti di loro è temuto); è un "luogo dell'anima" riluttante ai falsi valori della modernità e indifferente alla sua seduzione. Oggi noi eleggiamo questa "città fantasma" a nostra patria.
Viene spontaneo a queste parole un celebre brano dei diari di Franz Kafka: Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi le finestre ceche i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria.
Il nostro cuore non sa nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati.
È da questo rapporto autore-città che nasce l'opera d'arte: tentativo di liberarsi dei retaggi atavici, sforzo di darsi una definizione e un'identità che sfugge. Se Napoli negli anni Settanta è stata capofila di un rinascimento musicale che non solo di tradizione, ma anche di contaminazione viveva, sembra che negli anni Novanta la città sia in grado di guidare la riscossa di una cultura teatrale e cinematografica tale da contrapporsi efficacemente al banale filmico e televisivo dominante in questo tempo scandito dalle leggi del libero mercato. Un ostacolo, nel caso di Rasoi, potrebbe essere costituito dalla lingua, ma quello della non comprensione di un testo (rappresentato tale e quale e "capito" da Parigi a Buenos Aires, nonché contenuto nel bellissimo libretto che viene distribuito agli spettatori) è un alibi che non regge e parla soltanto di come il razzismo e il regionalismo su cui fanno leva certe compagini politiche siano ormai in realtà ben radicati e non estemporanei in un vissuto sociale in cui l'Altro fa paura e non incuriosisce.
Il napoletano di Moscato è una lingua barocca e arcaica. Ma anche intessuta di neologismi, sperimentale e tradizionale al tempo stesso, in cui ci si può (ci si deve) abbandonare al suono di parole che portano lontano, di accenti umorali che prendono da coloro che le pronunciano significati individuali e necessari. Il finto guappo, la Madonna, lo scugnizzo, Carolina e il re Bomba, il cuoco e l'insonne, l'autore defunto e aedo, emergono dal buio di un inferno stirico per portarci in una realtà che ancora dobbiamo espiare e che, forse, preferiremmo non vedere.
In questo senso Rasoi è un testo violento e radicale, almeno quanto è innocuo e dolcemente elegiaco il corto che Branagh dedica a sir John Gielgud con l'aiuto di Cechov. Il gioco ironico del "Canto del Cigno" ben introduce l'aggressiva bellezza di Rasoi.
Per una volta, due opposte concezioni di teatro hanno la possibilità di affrontare contemporaneamente il pubblico cinematografico. Al buio, nella sala, ci troviamo tutti nelle condizioni del suggeritore di Cechov: con piattezza diamo la battuta agli attori (e che attori) che restituiscono al testo, espressione e metafora della tragedia del vivere, quello che gli appartiene.
I vasce e rasoi ci risuoneranno a lungo nelle orecchie, segno di rabbia e rivolta della città cloaca verso l'ingiusto divenire della storia.
D. CATELLI, "Cineforum", anno XXXIV, 335, giugno 1994, p. 83.