Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
Torino. La signora, una ex prostituta dell'angioporto napoletano è giunta a controllare con i suoi trafici una serie di locali notturni specializzati in giovani travestiti.
Tre di questi femminielli li ha addirittura adottati (scambiandoli, si mormora, col solo figlio avuto e ripudiato), li ha allevati e addestrati.
Due hanno tralignato, il terzo, Desiderio, rinchiuso per vent'anni in casa, s'appresta all'improvviso al debutto: è un angelo, il prediletto prossimo alla perfezione, fisica e morale. Ma il successo, clamoroso e repentino, stravolge la natura del giovane, che ora s'atteggia a immagine e somiglianza della Signora, le si vuole sostituire, minaccia di scacciarla. Finirà da lei ucciso per veleno, mentre un altro bambinello, ignaro neofita, entra tra quelle tetre mura.
Vi ho riassunto, come posso, Pièce Noire di Enzo Moscato, il dramma che ha vinto il Premio Riccione 1985 e che la Cooperativa Nuova Scena di Bologna presenta dall'altra sera all'Adua, regia di Cherif, protagonista Marisa Fabbri.
Meritatamente premiata, Pièce Noire ha solo un difetto d'esser debordante e qua e là francamente ripetitiva (tre ore di spettacolo): ma rivela nel suo autore un promettente talento, dotato d'una scrittura già decisamente personale, in bilico tra cupo realismo e visionarietà sinistra, pur con gli evidenti debiti verso certi Maestri (penso soprattutto a Genet).
Per due ore su tre, cioè per il primo lungo atto, sino all'esordio (fuori scena) di Desiderio, la regia di Cherif, che vedo per la seconda volta all'opera (non conosco una sua Medea né una Didone da Marlowe), mi è parsa singolarmente limpida, nella palese internazionalità di vietare agli attori, e dunque alla vicenda, qualunque concessione al gusto naturalistico, ma di restaurare, di continuo, nei tempi e nei registri dell'azione, un clima da incubo astratto.
Poi nel secondo atto è proprio il copione a sgretolarsi, ci sono apparizioni inutili (la monaca fattucchiera), il confronto tra Desiderio e la Signora tarda a proporsi: ed anche la regia si sfalda, pare non riesca più a infondere ritmo e tono agli interpreti.
Nella suggestiva, angosciosa scena di Tobia Ercolino, una vasta sala di palazzo tutta palissandro e alte specchiere, con un drappo rosso porpora là in alto, tra gli accordi inquietanti delle musiche scelte dell'eterno Paolo Terni, Marisa Fabbri è una Signora d'indubbia autorevolezza: lotta imperiosamente con la volgarità (che non è proprio sua) del personaggio, lotta (lei toscana purosangue) col napoletano del testo (che le è altrettanto remoto), ma è troppo intelligente per non avere la meglio.
Desiderio è il languido e semisterico Erio Masina. I due figli degeneri sono il Toccacelli e il Da Pozzo, assai fervidi. Ottimo davvero il consulente Giggino di Umberto Raho. Assai colorita la serva Sisina di Marina Pitta.
A teatro non colmo (ma le prime in città erano tre martedì sera) pubblico attento e cordiale d'appausi, anche se francamente provato.
Guido DAVICO BONINO, "La Stampa", 14 gennaio 1988.