Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
Scrivere è un "gioco insensato", disse l'appena scomparso Maurice Blanchot: il quale, occupandosi per l'appunto di scrittura, proprio per questo viveva nascosto, e pressoché ignoto agli occhi del pubblico. E figuriamoci, allora, che insensatezza è pretendere di scrivere (ossia d'inquadrare e razionalizzare) la Storia: poiché - osserva Enzo Moscato, che già aveva affrontato il problema in Luparella, Rasoi, Co'Stell'Azioni e Sull'ordine e il disordine dell'ex macello pubblico - la Storia "è orba per metà e 'nzallanùta per intero".
Di conseguenza, l'ultimo spettacolo di Moscato, Kinder-Traum Seminar (Seminario sui sogni dei bambini o Seminario sui bambini in sogno), in scena nella Sala Assoli del Nuovo - paradossalmente riesce a toccare e sviluppare il tema su cui si fonda, l'Olocausto, perché non è lo spettacolo su quel tema: nel senso che, situandosi (per esplicita dichiarazione dell'autore) fra reading e mise en espace, accoglie per il momento appena la seconda parte di un testo che di parti ne prevede quattro, e che sarà allestito in data da destinarsi.
Ma, naturalmente, il discorso va ben oltre queste coordinate d'ordine esterno. L'insensatezza della scrittura, e in particolare della scrittura applicata alla Storia, è richiamata da Moscato già in epigrafe, attraverso la parola sogno pronunciata in cinque lingue più un dialetto, ovviamente quello napoletano: "Sogno. Suonno. Sueño. / Traum. Songe. Dream...". Un accumulo tautologico che, s'intende, porta di per sé alla non significanza. E incastrata al centro di tale accumulo c'è la variante, "sueño", che offre un po' la chiave del tutto.
Quel "sueño", insomma, rimanda a Calderón. E se "la vita è sogno" (se, per aggiungerci Shakespeare, "noi siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni, e da sonno è circondata la nostra breve vita"), vuol dire che ciascuno di noi sogna tutti gli altri uomini e da tutti gli altri uomini viene sognato: spesso, aggiunge Moscato nel citare Dostoevskij, diventando, più o meno, vittima del loro sonno. Ciò che soprattutto accade, lo sappiamo, allorché quel sonno è il goyesco sonno della ragione, e produce sogni sinistri come, appunto, il sogno che determinò l'Olocausto.
È facile, dunque, capire perché l'Olocausto immaginato (o, giusto, sognato) da Moscato sia l'Olocausto dei bambini: si tratta - come vien dichiarato nella terza parte del testo, qui, ripeto, assente - di sterminare proprio "i loro sogni, la loro fantasia, la loro irrequietezza, la loro anarchia, il loro essere ancora così mostruosamente vicini alla Natura". In breve, siamo di fronte allo scontro titanico tra un sogno di libertà e il sogno di chi quella libertà vuole negare e distruggere. E tutto si tiene, allora: subito dopo la preghiera ebraica che si leva sul cumulo infinito dei morti, arriva il sogno - il sogno d'essere una cometa, che ha la "sveltezza dei gabbiani" - cantato da quell'Hölderlin che (ecco, di nuovo, l'insensatezza della scrittura) constatava: "Tacere spesso dobbiamo, / mancano i Nomi Sacri".
In linea con un simile schema ideologico - e nel contesto significativo della scena di Tata Barbalato imprigionata da una rete, delle citazioni letterarie e non che (a parte Dostoevskij, Hölderlin e Jung, dal quale deriva il titolo dello spettacolo) vanno, poniamo, da Kantor a Celan e delle musiche che trascorrono dalla gaglioffa Stille Nacht ai canti yiddish tratti da Schindler's list - la prova degl'interpreti: lo stesso Enzo Moscato, Cristina Donadio, Gino Grossi, Carlo Guitto, Pasquale Migliore, Ciro Moscato, Giuseppe Affinito junior e - nel ruolo di Zezzeniello, un partigiano napoletano in funzione di coscienza critica contro le ruffianerie celebrative - quel Salvio Moscato del quale salutiamo con gioia il ritorno in scena dopo una grave malattia. Una malattia, a questo punto, da assumere come allegorica, allo stesso modo che come una sacrosanta terapia va considerato lo spettacolo.
Enrico FIORE, "Il Mattino", 23 marzo 2003.