Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
La drammaturgia di Orfani veleni, liberamente tratto dal precedente Fuga per comiche lingue, tragiche a caso (del 1990), unisce insieme numerosi brani, passaggi e squarci su opere e atmosfere diverse, talvolta divergenti. Alcuni frammenti, riconducibili a Petito, Pasquale Altavilla e Libero Bovio, ricavati da una ricerca sulla Tradizione e sulla Molteplicità della Maschera, fanno esplicitamente riferimento agli appassionati/caustici duetti di Colombina e Pulcinella; altri pezzi, emblematicamente definiti "sospensioni", di stretta fattura moscatiana, sono tratti dall'imponente e precedente produzione dell'autore: da Rasoi, Trompe l'oeil, Recidiva, per fare qualche esempio.
Orfani veleni, ripropone e attualizza un discorso che a partire dalla maschera di Pulcinella, ne sottolinea invece il necessario bisogno di rifiuto. Materiali differenti per tono ed emotività linguistico-espressiva, chiamati ad inter-agire e fondersi alchemicamente, in quel grande alambicco, mutazionale e meraviglioso, carnevalesco e quaresimale, che è, per Moscato, la Scena. È come se fossero rispettivamente, l'esterno e l'interno, il noto e l'estraneo, il sopra e il sotto, la Tradizione e l'es-Tradizione (la cancellazione, la rimozione e l'oblio) di un possibile e attuale discorso sulla Maschera, che per Jung coincideva con la persona, e per Nietzche, invece, definiva la necessità di schermitura da ciò che di perturbativo e orrendo sale dal profondo al cuore degli Umani e che, per terrore, quel terrore che solo il Sacro e il Numinoso recano con sé, riduce ogni autentico a inautentico, ogni vero a falso, ogni classicità e bellezza a vuoto burattiname, a scorza e aridità, a inerte meccanismo privo d'anima e speranza.
Il titolo dato allo spettacolo, oltre che essere un affettuoso omaggio alla vecchia, prima compagnia teatrale di Enzo Moscato (L'Orfano Veleno, appunto), sottolinea e rivendica, da parte dell'autore/attore/regista, il desiderio profondo d'apocrifia, "di una scrittura finalmente senza padri, senza storia, orfana ed anti-edipica" e i cui percorsi erranti, anarchici, volutamente contraddittori e marginali, ne sono al fondo, forse, il tossico poetico, l'impossibile "venenum".
Urlo di vita
Quando ero molto piccolo e sulle salite, nelle piazzette, per i vicoli di Toledo, il mio quartiere, passava il tabernacolo sconnesso delle guarattelle a dar spettacolo per tutte noi "criature", a me non succedeva mai che la vista di Pulcinella suscitasse riso o divertimento, come agli altri. Al contrario, quel camicione bianco da pazzo, quel nasone d'uccellaccio maligno, quella vocetta stridula, quella faccia tutta nera, senza veri occhi o bocca, quei suoi gesti disarticolati e monchi, da animella del Purgatorio, mi mettevano addosso sempre un'inquietudine, un'angoscia, una paura così forte da togliermi il respiro, costringendomi a scappare e andare a nascondermi da qualche parte lontano, lontano, dovunque potessi non vedere o sentire mai più quella cosa oscena e mostruosa chiamata Pulcinella.
Fattomi grande, ho poi capito che la mia infantile reazione di fuga davanti alla celebre "maschera" della mia città non era affatto dovuta ad un carattere debole o impressionabile, bensì esprimeva, ad un livello ancora del tutto instintuale ma, a suo modo, nitido e preciso, il mio inquieto avvertire la nascosta verità di quel (cosiddetto) burattino: non stupido re dei maccaroni, non cagasotto dispensiere d'allegria, niente strafottente o ingordo voltagabbana, ma solo un insieme sinistro di segnali, un intreccio, assurdo e surreale, di suoni e di lingue, disinvoltamente spalancati su Qualcosa di Spaventosamente Indefinito. Forse l'Apocalisse.
Pulcinella, insomma, era per me, inconsciamente, già una "bella" metafora di morte, e bella proprio perché mi teneva a distanza, facendomi paura. La stessa metafora di morte, del resto, che oggi, come artisti dinanzi al quotidiano imbarbarimento, di fronte all'inarrestabile devastazione di cose e sentimenti di questa città, siamo chiamati energicamente ad affrontare, e a cercar di tramutare in urlo fortissimo di vita, di rispetto per la vita, di ferma custodia della memoria. Potessi esprimere un desiderio, vorrei che questo spettacolo fosse capito o letto non tanto per le parole che offre, per quelle che non offre, che non può offrire, e che cerca di suggerire soprattutto con il corpo, con l'ossessivo ritornare del mio corpo sulla scena verso il medesimo gesto, verso il medesimo movimento fatti prima. Una specie di fuga infinita dal Terrore, restando sempre fissi però nello stesso identico posto. Forse un rituale magico. Un esorcismo. Una richiesta impossibile di miracolo. Per fermare (ma San Gennaro dove sta?) la lava e la cenere, terribili, di un seppellimento catastrofico. Senza resurrezione.
(Enzo Moscato)