Enzo Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
a cura di Isabella Selmin
Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.
E. Moscato
Note al testo:
Ancorato saldamente a una scrupolosa, quanto fantasiosa, riscrittura/reinvenzione scenica di uno dei testi ritenuti tra i minori e i meno rappresentabili di Carlo Goldoni, Il Molière del 1751, il lavoro di Moscato, mettendo a fuoco, dell'antico copione originale, l'ironica ma non superficiale intuizione psicologica dei personaggi; la coraggiosa tematica - al limite del sospetto d'incesto - della passione nutrita dal già maturo Molière per la giovane figlia della sua storica amante, la Bejart; la dimensione drammaturgica, stupefacentemente "aperta" e antididascalica, quasi modernamente metateatrale (un commediografo famoso che indaga la vita intima di un altro celebre autore di teatro, senza malevolenza, ma anche senza alcuna ambiguità o reticenza o ipocrisia), tenta di restituirci la trascurata opera del Veneziano in tutta la sua viva e anti-illuministica incisitivà. In tutta la sua leggiadra e maliziosa levità d'atmosfere, fatta di ritmiche battute a rima baciata, che pendono, qual graziosi fronzoli, da una (invece) ferrea struttura formale "a incastro" e "a rimando", intessuta com'è di riflettenti specchi animici, di finissimi doppi figurali, di significanze linguistiche, accese e meticce, pulsanti e musicali, nel cui mutevole fondo si nasconde, forse, l'autentica intenzione di Goldoni nello scrivere e dedicare il testo al suo insuperato maestro "in pectore" di Teatro: Jean Baptiste Poquelin, detto Molière, simbolo, egli medesimo, dell'essenza, semplice e profonda, del "fare" scena: dolore e necessità di maschera, trionfo e impopolarità, libertà e veleno, prigionia e mai vinto desiderio di un esilio, di una qualsivoglia e umanissima evasione.
Più o meno quello che, ancora oggi, sotto qualunque cielo, un qualsivoglia artista prova e ri-prova sulla propria (e trascurabile) pellaccia.
A monte di questo mio ultimo lavoro, c'è, forse, una doppia considerazione da fare.
L'una relativa al testo, la ri-scrittura, che io stesso ho condotto su un antico copione di Goldoni, dedicato a Molière; l'altra, riguardante la messa in scena che, della suddetta ri-scrittura, vedrà la sua prima nazionale alla Biennale di Venezia 2007. Le due cose non vanno di pari passo, e tenterò di spiegarne il perché.
Il testo di Goldoni-per-Molière (Il Molière), appunto, del 1751), da me ri-scritto e ri-battezzato come Le Doglianze degli attori a Maschera, sulla pagina si potrebbe definire alquanto "fedele" alla "partitura-per-rima" ideata dall'autore veneziano in omaggio al famoso collega francese, vissuto circa un secolo prima. Tranne, in vero, che per una più accesa invenzione linguistica, tesa a dinamizzare e a velocizzare il sovente prolisso procedere drammaturgico goldoniano, la commedia "rielaborata" risulta sostanzialmente rispettata, sia nei suoi aspetti formali, sia nella trama (un anomalo "menage à trois" tra Molière, la sua amante "storica", Bejart e la di lei figlia - in realtà sorella - Armande/Guerrina, forse frutto incestuoso - per Goldoni e gli altri dell'epoca - della relazione tra i due. Il tutto calato nella Parigi di metà XVII secolo, nell'esatto momento in cui, Molière, impedito dai "faux devots" nel mettere in scena il suo accusatorio Tartufo, fa di tutto per vincere meschinerie ed ipocriti ostacoli verso l'arte del teatro, da lui sentita essenzialmente come insopprimibile libertà).
Fin qui, testo originale e sua riscrittura a firma mia. Altra cosa, invece, e alquanto radicalmente, di questa riscrittura, accade, se la consideriamo in quanto versione scenica, proposti con la mia regia, alla Biennale di Venezia. Qui infatti, e questo certamente in osservanza al principio del "tradimento" che è sempre stato alla base del Teatro da me professato, risultano pressoché annullati, cioè destituiti di senso e di significato, non solo la "relativa fedeltà" alla pagina dell'autore ri-visitato, ma anche qualsiasi traccia o residuo relativi al genere "commedia" e ai suoi autorevoli "padri" del passato (Goldoni, Molière, e quant'altri), che, per l'appunto, lungi dall'essere restituiti come furono, o come potremmo rimembrarli, oggi, con l'apporto di storia e di filologia, non son altri che miei distorti guizzi immaginari, ombratili di larve, miei fantasmi fatui, complici pre-testi, insomma, dell'estremizzante e tradente gioco scenico messo in campo.
Allora, ci si chiederà: perché operare una ri-scrittura, che, almeno alla lettura, restituisce, o cerca di farlo, un'integrità dell'originale, per poi annullarla, minarla, frantumarla, considerevolmente, una volta che si è di fronte alla sua versione scenica? La risposta a questa domanda è complessa. Com'è complessa, e mai semplificatoria, qualsiasi risposta ai tanti perché della scelta di una modalità, piuttosto che un'altra, di rappresentazione, da parte di un regista.
Posso provare a rispondere, ma sono conscio che non sarò mai del tutto chiaro ed esaustivo a riguardo. Una possibile risposta può venire senz'altro dal pericolo di noia. Dal tedio, derivante da una "routine". E, spesso, la pratica del teatro, espone sensibilmente a questo rischio.
Essere sempre nell'obbedienza alla lettera, nell'esercizio canonico di determinate regole, senza alcun dubbio può deprimere. E, allora: o ci si accomoda, passivizzandosi come attori-creatori, divenendo così spenti ingranaggi di un meccanismo che ci manipola; o si de-regola, si de-via, si rimette in discussione tutto, pur di sentirsi vivere, palpitare, agire, divertirsi, trasformarsi. In altri termini, si decide di stare nella "metafora", non nella "lettera". Nel consapevole "tradimento", non nell'ortodossica, inerziante fedeltà a dei codici prestabiliti. Ed è questa la strada che ho scelto io per la scena: non solo tradire Goldoni (che, di suo, invero, aveva già tradito il Molière "storico"), ma anche tradire me stesso, quel me stesso - traghettatore - parzialmente fedele di una ri-scrittura, di genere "classico-commediale", del 1751. E, così, si è forse evidenziata una seconda motivazione, o risposta, ai perché delle specifiche modalità di una versione scenica di un testo piuttosto che un'altra: la libertà.
Cioè, lasciare che un gioco, un gioco qualsivoglia, vada "naturalmente" per la sua strada, interagendo (colle sue regole di gioco) colle regole di un'altra cosa (che gioco poi tanto non è…), e che è la partitura scritta, il copione. Tra partitura scritta/copione e gioco dell'attore, non deve esserci mai, a parer mio, assoluta corrispondenza, specularità. Ma al contrario, e perché vi sia vitalità, una sorta di estraneità/complicità, di distanza/contatto, agita a tratti, e in "dosi" possibilmente eguali.
Da questa interazione, da quest'alchemico intruglio-mbruglio-contaminazione-ibridazione - se veramente ci sono - nasce sempre un'entità diversa, che è poi il "diverso", il "differente", l'altro, che si vede in scena. E quello che si vedrà in scena - o confido che si veda - ne Le Doglianze degli Attori a Maschera è proprio questo gioco di allontanamento-riavvicinamento, intermittente, fra parola dei "testi" (l'originale e il ri-scritto) e libera inventiva, libero tracciato dell'attore. Fra aggressione alla pagina e improvvisa tenerezza: sarcasmo e demenzialità; cantabile ragionevolezza e insopportabile stonatura (deriva) del senso.
Il tutto senza preoccuparsi troppo di "ferire", o, al contrario, ipocritamente accarezzare troppo, il "classico" o i "classici", le paternità e le familiarità, teatrali, di cui si sta "rendendo conto". Parlando. O s-parlando. Blaterando. Cantando. Inveendo. Spesso, a ragione. Più spesso ancora, e con divertimento, platealmente a torto.
Perché, in fondo, ciò che più mi importa, ai fini dello spettacolo, è che emerga il gioco "a scatole cinesi", "a matrioska", dei tre tradimenti al monte dell'operazione: quello già di Goldoni su Molière; quello mio di trascrittore, su Goldoni: e, infine, quello degli attori, anzi: i guitti, compreso me, in relazione agli altri due precedenti.
Può darsi, non so, che, in questa "mmescafrancèsca" di sabotaggi testuali, di patetiche finte, storiche e filologiche, qualche "purista" della domenica, qualche erudito spulciatore di corrette enciclopedie, trovi "sua ragion" di bacchettarci, se è alla ricerca del "peccato originale" commesso da noi - ultracorpi farseschi (napoletani, lombardi, veneti, variamente dialettal connotati), invadenti vilmente il sacrosanto corpo dell'italica commedia di costume; da noi, stafilococchi molesti; da noi, doglianti a maschera, senza maschera - provanti a rimettere su in piedi il rimosso guittume antico, il pre-riformato disordine, tanto alacremente fatto fuori dalle amene pièces di Goldoni.
Tant'è. Noi ci siamo divertiti. E non è affar di poco, di fronte a tanto, evanescente polverone, che si inerpica tra i fumi delle demenziali esequie di cartacee sicurezze; tra improbabili strofette veneziane, coniugate ai genòmi petitiani; tra l'incongruo anacronistico di "strisce" musicali (Rita Pavone, Nada, Di Capri, Modugno, i Righeira, Gabriella Ferri) e l'ancoraggio, cupo ma non tanto, al gondoloso richiamo - citazione della mahleriana/viscontiana Morte a Venezia, o al "piccio" baroccante dell'ultima Dalida di Dix-huit ans. E dove qui e là, uno svampito/confuso Molière vela e dis-vela, a tratti, un silenzioso urlo ipocondriaco, dovuto non tanto al teatro, o a un poco credibile matrimonio con una squinternata Lolitella, quanto piuttosto a una sua "svista" esistenziale, a una sua "diversità" stereotipata. Che non ha altro vero, a dirla schietta, che il mio proprio corpo stesso. E l'anima, ovviamente. Con tutto il necessario "sporco" e "non formalizzato" che ne consegue.
Enzo Moscato