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Leo de Berardinis - Articoli

Leo de Berardinis

a cura di Marilena Gentile

 

Il teatro è veramente lo specchio profondo del tempo, dove l'uomo riflette se stesso, non per fermarsi nella fissità della propria forma, ma per scrutarsi, allenarsi, come un danzatore.

L. De Berardinis

Il viaggio nell'attore. Un assolo, "Past Eve and Adam's"

Bologna - Repertorio una parola nobile, a teatro. Per l'attore ottocentesco, su cui ancora si fonda la nostra più salda tradizione, era l'insieme dei testi e dei personaggi a cui poteva attingere per costruire una performance. Una sorta di magazzino delle sue abilità non dissimile da quello del danzatore o del jazzista capace di improvvisare su un tema musicale conosciuto. In questo senso inscindibile dalla creazione, se legato cioè al processo e non alla stanca ripetizione, non a caso nella parola c'è anche la radice di partorire. A un proprio sperimentato repertorio ha attinto con larghezza Leo de Berardinis nella costruzione del nuovo lavoro in assolo, Past Eve and Adam's (al teatro San Leonardo di Bologna fino al 14 novembre).

Momenti intimi
Da tempo l'attore ama alternare agli spettacoli realizzati con la propria compagnia queste prove solitarie, quasi momenti più intimi di riflessione che significativamente passano attraverso le parole degli autori a lui più cari. E allo stesso tempo momenti di sperimentazione personale, un mettersi alla prova di nuove possibilità. Negli anni passati sono così venuti gli incontri con Dante e il Cantico dei cantici, e i riflessi multipli di Omero e Joyce, l'Odissea antica e quella dublinese dell'Ulisse moderno, Leopolcl Bloom. E poi ancora Leopardi e il soliloquio doloroso indotto dalle parole di Shakespeare e quelle di Pasolini sulle ceneri di Gramsci, dette in duo con Steve Lacy, a rendere concreta una analogia fra l'artista di teatro e il jazzista da sempre evocata a modello dell'arte interpretativa.

In Past Eve and Adam's queste voci poetiche si incontrano e si intrecciano senza confini di luogo o di tempo, anzi rispecchiandosi proprio nella loro lontananza. Quasi fossero convocate dall'attore in una veglia che si apre significativamente con il frammento iniziale della Finnegans Wake da cui è tratto anche il titolo dello spettacolo, l'enigmatico "fluidofiume" che con Joyce sembra tracciare un confine all'esplorazione letteraria novecentesca. Si apre con le note possenti della Messa da requiem di Mozart, nella penombra che ancora invade il candido cubo bianco della scena che si andrà poi colorando di intense tonalità rosse, di pallide macchie solari, di sbavati graffiti. Di null'altro ha bisogno l'attore che pare fluttuare in quello spazio essenziale.
Da lì non si può che risalire all'indietro, alle rive desolate della Ginestra leopardiana, e più indietro ancora, al mare percorso da Ulisse nel suo errabondo viaggio di ritorno. Mentre anche la musica trapassa nel Clavicembalo ben temperato di Bach, nel quartetto d'archi di Beethoven. Si risale al fanciullo Rimbaud folgorato dalla bellezza amara dell'arte che danza sui flutti più leggero d'un sughero. Si scende nell'inferno dantesco dei colpevoli amanti, nell'inferno di un altro Ulisse condannato dal proprio desiderio di conoscenza. Si attraversa quello di sir e lady Macbeth. A tratti l'attore esce di quinta, sul fondo, senza che si interrompa il continuo musicale, e rientra con indosso un abito femminile e una maschera bianca. L'attore torna a saggiarsi nel femminile per dire le parole della follia dolce di Ofelia, ma altre parole incalzano. Senza soluzione di continuità. E sarà così Ofelia a recitare Leopardi, di nuovo. Poi l'abito si sfila dal corpo dell'attore, resta a terra come un segno dell'inevitabile entropia che accompagna il passaggio sulla scena. E la sola maschera bianca resta a ricordo dell'ideale androginia in cui si incontrano lo sposo e la sposa del Cantico dei Cantici.

Antologia di passioni
È un'antologia di predilezioni personali anche la scelta dei brani musicali che si accompagnano ai testi, spesso sovrapposti in una indistricabile trama che lascia tuttavia emergere i motivi originari. Non potevano dunque mancare Schomberg e il jazz di Coltrane a fianco di Bach e Beethoven, sullo scheletro duro del Requiem mozartiano.
Ma la voce lo strumento con cui Leo de Berardinis da corpo alla "messa in musica", della poesia. Una voce bassa, protonda, ricca di risonanze esaltate dall'uso del microfono che diventa un altro strumento ancora nella mano dell'artista. E allora ecco lo straordinario passaggio di un Riccardo III che traduce in foggiano il suo invernale scontento, irresistibile "cattivo" da sceneggiata. Poi la musica tace, d'improvviso, le luci scolorano, e nel riquadro bianco di una coda cinematografica uno strappo violento di silenzio isola il monologo di Amleto, "Essere o non essere". Il microfono attaccato alla bocca, che si sente anche il respiro dell'attore. Quante volte l'abbiamo ascoltato? E quante volte l'ha fatto Leo? Come mai continua a toccarci come se ascoltassimo per la prima volta quelle parole?
Sono le domande che si pone lo spettatore. A cui non sa rispondere, se non con la convinzione che nel presente dell'evento scenico le parole debbano nascere nuove ogni volta. Così come non sa dire, lo spettatore, se questo guardare indietro dell'artista alla propria storia abbia il valore di un consuntivo. Ogni punto d'arrivo è un ricominciare, si diceva. Qui il punto d'arrivo non poteva che essere il sublime "Amor che move il sole e le altre stelle" del XXXIII canto del Paradiso. Sono passati vent'anni da quando lo ascoltai per la prima volta, su un palcoscenico romano, dove Perla Peragallo si muoveva come una falena impazzita. Sembra passata una vita.

Gianni MANZELLA, "Il Manifesto", 4 novembre 1999.