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Leo de Berardinis - Articoli

Leo de Berardinis

a cura di Marilena Gentile

 

Il teatro è veramente lo specchio profondo del tempo, dove l'uomo riflette se stesso, non per fermarsi nella fissità della propria forma, ma per scrutarsi, allenarsi, come un danzatore.

L. De Berardinis

Voce del deserto

Solo sulla scena, l'attore intreccia un percorso che tocca Joyce e Shakespeare, Bach e Mozart, il canto di Ulisse e le stelle dell'Orsa di Leopardi, fino alla disgregazione del linguaggio poetico in questo scorcio di secolo

Bologna - Il teatro di Leo de Berardinis ha sempre pulsato di riferimenti musicali, fondendo spesso nel suo essere due registri. Quello della voce-linguaggio-musica, di un canto formulato per sintesi che prendeva corpo sulla partitura diretta della scena; e quello della musica vera e propria (il jazz come simbolo d'improvvisazione e di variazione, gli omaggi e le citazioni per gli adorati Parker e Coltrane. Ma anche Bach e Beethoven, Mozart e Schönberg): contrapposta allo scavo della ricerca vocate o intrecciata sottilmente ad essa. Le due dimensioni coesistono perfettamente, anzi sono tutt'uno anche nell'ultimo Past Eve and Adam's, che ha appena debuttato al San Leonardo (repliche fino a domenica 14). Un concerto per attore solo, che prende il titolo da un passaggio naturalmente ellittico dell'incipit del Finnegan's Wake joyciano; o meglio da uno dei suoi lampi verbali che unisce l'idea ironica di paradiso perduto all'immagine del fluire. Del tempo, o della sua illusione. Compendio quindi ideale di un secolo, da parte di Leo. Di un deserto attraversato: con la consolazione, però, della poesia.
Niente recital supportato da note, niente melologo, ovviamente. Non ci sarebbe neanche bisogno di specificarlo. Ciò invece cui assistiamo, è che poco a poco ci contagia, è lo spettacolo della voce come pura teatralità parlata. Della parola dei poeti abbracciata alla musica in un continuum di alta suggestione, di grazia da seguire frantumando la resistenza dei concetti e volando su ogni pericolo di concettualizzazione.
Nel quadrato di uno spazio bianco, reso metamorfico dal movimento delle luci oltre che dai diagrammi vivi del corpo d'attore, la voce che dice l'Altro a nessuno-tutti è dunque pateticamente sincera. Leo inanella i movimenti di una sinfonia che da Dante a Joyce (e da Bach a Schönberg) ricrea un'immaginaria circolarità musicale dalle origini del linguaggio poetico alla sua disgregazione in questo secolo finale.
A momenti è un rotolare continuo di parole depensate nella bellezza. A momenti ci sono invece pause in cui è sottinteso un respiro fluttuante. Sonorità dell'immagine e fisicità della parola-musica (prevale, al di là di ogni virtuosismo, il timbro grave e faticoso di un "dentro" che comunica ad un altro "dentro", quello dello spettatore) vanno di pari passo. Sembra così che le volute del Requiem di Mozart siano nate per accogliere le terzine del canto di Ulisse, e Leo disegna i gesti equivalenti al suo atteggiamento compositivo: pare quasi in quei contrappunti che la musica gli cresca tra le mani.
Le stelle dell'Orsa di Leopardi si spezzettano in variazioni schönberghiane, il sax di John Coltrane svisa sotto le aspre visioni del Testaccio di Pasolini.
Ogni tanto una maschera, una tunica, appaiono per vestire e segnare le presenze. Delle grandi ombre scespiriane come Amleto, Macbeth, Riccardo III che si concede un po' del colore del villain da sceneggiata. Di Edipo che chiede di essere coperto di silenzio. Fuori dal pensiero, fuori dalla storia: siamo davvero vicini ai poeti perché nell'attimo che varia continuamente, le parole e la musica diventano corpo scritto.

S. COLOMBA, "Il Resto del Carlino", 6 novembre 1999.