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Leo de Berardinis - Bibliografia critica

Leo de Berardinis

a cura di Marilena Gentile

 

Il teatro è veramente lo specchio profondo del tempo, dove l'uomo riflette se stesso, non per fermarsi nella fissità della propria forma, ma per scrutarsi, allenarsi, come un danzatore.

L. De Berardinis

I poeti dovrebbero essere sacri. Perla Peragallo

Al funerale di Pasolini Moravia, commosso - e la commozione accentuava quel suo esprimersi sprezzante e infastidito nei confronti del mondo in cui gli era dato vivere - disse: "I poeti dovrebbero essere sacri". E, infatti, se questa nostra epoca totalmente arresa a un unico valore recasse ancora qualche traccia del 'sacro', i poeti dovrebbero essere sacri. Nessuno dovrebbe poter toccare i poeti non solo nel senso di attentare alla loro vita, ma anche in quello di permettersi di parlare di loro senza essere all'altezza di farlo; che è poi un altro modo di attentare alla loro vita, a quella artistica se non a quella del corpo e cioè a quella della loro mente e del loro sentimento.
È probabile che la crisi del libro e della lettura non sia dovuta al cinema e alla televisione, alla società dell'immagine, per usare una locuzione corrente.
Il cinema è una forma di narrazione di altro tipo che prevede la presenza forte, fortissima, dell'attore: chi ama leggere i romanzi - lasciando stare la poesia lirica che col cinema, in quanto genere, non c'entra per nulla - non ha nessuna intenzione di rinunciare alla messa in scena fantastica che la lettura permette e prevede e sa bene quale differenza ci sia tra questa messa in scena fantastica e quella tutta reale, in quanto passa attraverso gli attori, di un film. Parlare della televisione è inutile: il linguaggio televisivo per come si è realizzato e per come è oggi in Italia - ma non solo in Italia, ovviamente: la globalizzazione esiste nell'economia e quindi anche nella cultura antropologica- non ha nulla a che fare con la lettura di romanzi, di saggi, di poesie, eccetera: chi ama la lettura non guarda la televisione e l'informazione la trae dai giornali; questi ultimi permettono una scelta che l'asservita e uniformata informazione televisiva non consente più (ma l'ha mai consentita veramente?) La crisi del libro è dovuta ai libri. I nuovi sistemi di stampa, decisamente poco costosi confronto a quelli di un tempo, permettono di pubblicare un numero grandissimo di libri senza discernimento alcuno che non sia quello di potersi permettere il minimo costo della stampa. È vero che, a questo punto, interviene il problema della distribuzione: le grandi case editrici fruiscono di una distribuzione capillare in tutte le librerie d'Italia (e, per ciò che riguarda le riviste, in tutte le edicole) mentre i piccoli editori utilizzano una distribuzione, per così dire, artigianale, organizzata in proprio e sicuramente non capillare. E poiché il mercato non premia certamente la saggistica di valore (a quanti può interessare leggere un libro "scientificamente" -si diceva un tempo con sfumatura positivistica- fondato su, per fare un solo esempio, Perla Peragallo?
Ma: a quanti interessa oggi leggere un libro, "scientificamente" fondato, in generale nell'epoca della superficialità, della banalità e della volgarità trionfanti?), ecco che questa deve di necessità rivolgersi, per poter essere letta almeno da quella ristretta cerchia di persone cui si riferisce, a piccoli editori. E a questo punto affoga nel maremagno di cui si diceva prima e il lettore, che non sia un lettore di professione, si trova in difficoltà a distinguere tra ciò che vale e ciò che non vale e si disaffeziona alla lettura. E lasciamo stare gli altri motivi di disaffezione tra cui primeggia il fatto che i grandi editori vellicano i gusti del pubblico offrendo prodotti sempre più scadenti che ulteriormente abbassano il livello dei gusti dei lettori: è un meccanismo di andata e ritorno, un gioco all'adeguamento tra la domanda e l'offerta, che ben conosce chi si occupa di spettacolo. Ma, per tornare alla saggistica, un tempo i grandi editori avevano una o più collane di studi che pubblicavano per ragioni di prestigio e anche di mercato dal momento che -non erano ancora state inventate le macchine fotocopiatrici- quei libri rispondevano a una richiesta che veniva dall'università e dalle persone colte che in quei tempi erano, sopra tutti, i professori di scuola media superiore. Di queste collane erano garanti i direttori, studiosi sempre di prestigio, che assicuravano la qualità "scientifica" di quei lavori. Oggi tutta questa organizzazione cultural-editoriale non esiste più e l'iniziativa è lasciata, come detta il mercato, al singolo che, purché possieda un pic-colo capitale, può farsi editore di se stesso e promuovere così la propria carriera, accademica o no che sia. Il risultato è che chiunque abbia steso una tesi di laurea men che mediocre si sente autorizzato a pubblicarla: è infatti tipico degli studenti mediocri -ma qui bisognerebbe anche analizzare le colpe dei docenti- credere di aver fatto uno splendido studio quando invece si tratta, il più delle volte, di copie di copie ricopiate, come diceva a proposito degli attori del suo tempo il grande Gustavo Modena, oppure di ricerche magari anche interessanti come raccolta di materiali, ma che dovrebbero semplicemente preludere a un lavoro successivo -di cui queste ricerche costituiscono la base- di elaborazione critica vera e propria: insomma si scambia il materiale da costruzione per il ponte già fatto.
Per ciò che riguarda il teatro, dopo un libro su Memo Benassi (M. Paladini, Memo Benassi. Attore indipendente, Parma, Silva, 1997), che risponde piuttosto al primo criterio, è ora la volta di uno su Perla Peragallo di certo Maximilian La Monica, Il poeta scenico. Perla Peragallo e il teatro, pubblicato a Roma da Editoria & Spettacolo di La Monica Maximilian (sic) nel 2002 e che ha a che fare, invece, con il secondo punto. Il La Monica, infatti, ritrovato molto materiale su Leo De Berardinis e Perla Peragallo, che va dal 1967 al 1981, costruisce un libro assemblando recensioni e altre cose; il suo discorso quasi non esiste, le citazioni sono spesso lunghissime ma non esaustive: a questo punto tanto sarebbe valso pubblicare per intero il materiale rintracciato perché risultasse un utile strumento da mettere a disposizione di chi volesse occuparsi dell'argomento con occhio e capacità critiche. Ma il titolo è quello, il poeta scenico (ma meglio sarebbe stato dire: un poeta della scena) e la quarta di copertina recita: "La vita teatrale di un'attrice la cui espressività ha caratterizzato la scena del '900 teatrale italiano": titolo e quarta di copertina promettono molto da questo libro magari con un errore (non "del '900" si tratta ma "del secondo '900 italiano" altrimenti bisognerebbe parlare della Duse, per non fare che un nome altamente esemplare, e di altre attrici ancora), promesse che non vengono mantenute affatto. Alla fine della lettura non si capisce il motivo del titolo (e della quarta di copertina): e dire che il titolo e la quarta di copertina sono le uniche cose importanti del sedicente 'studio' dal momento che Perla Peragallo è stata effettivamente un autentico poeta della scena teatrale italiana del secondo novecento: e i poeti, appunto, dovrebbero essere sacri e nessuno dovrebbe attentare al loro straordinario valore artistico con libelli opportunistici e raffazzonati.
Perla Peragallo - che, d'ora innanzi, chiameremo semplicemente Perla non certo per quel vezzo della critica che si occupa di questo teatro che suole usare solamente il nome di quei teatranti a mostrare con loro una certa familiarità, ma perché sia lei sia Leo De Berardinis intitolarono la loro compagnia proprio come quella di "Leo e Perla" (e Leo De Berardinis continuerà così anche dopo la fine del sodalizio con Perla)- è stata un autentico poeta del teatro.
Lo spettatore di allora ricorda con grande emozione il piacere estetico che ella seppe dare, fruendo in Leo di una 'spalla' eccezionale; l'autentico piacere del teatro che non può essere sostituito da alcun'altra forma d'arte. E questo piacere estetico consisteva nell'assistere a un tipo particolare di recitazione che fa di Perla l'attrice più coerente a una certa poetica del teatro di contraddizione e ciò è a dire di quel teatro realizzato da coloro che "hanno combattuto davvero il potere", come si esprimono proprio Leo e Perla in un colloquio del 1980 con Rita Picchi (in "Scena", giugno-settembre 1980, p. 32). Quel teatro combatteva il potere teatrale del tempo -che è ancora quello di oggi e cioè quello dei teatri stabili e di tutto ciò che va sotto l'etichetta di 'teatro ufficiale o di tradizione'- ma anche il teatro tout-court, il teatro come luogo del realizzarsi di un certo sentire borghese così come si era cristallizzato in due secoli di storia (non del solo teatro, ovviamente): ecco ancora Leo e Perla: "Pensare teatralmente e non in riferimento al teatro, cosa quest'ultima impossibile perché non esiste né deve mai esistere un teatro" (L. De Berardinis in F. Molè e L. De Berardinis, Il lavoro su Amleto, in G. Bartolucci, La scrittura scenica, Roma, Lerici, 1968, p.232; si attribuiscono qui le parole di Leo anche a Perla perché così stavano le cose in quel periodo: Leo parlava e Perla no, ma l'elaborazione del discorso, come l'ideazione e la realizzazione dei testi teatrali, era di tutti e due come Leo ebbe spesso a dichiarare e come potei constatare io stesso quando, insieme a Ruggero Bianchi, realizzai un colloquio che volemmo intitolare Incontro con Leo De Berardinis e Perla Peragallo e che pubblicammo su quella che era allora la nostra rivista, "Quartaparete", anche se Perla non disse una parola; ma la sua presenza fu molto forte anche in assenza di parole). Di contraddizione al teatro e quindi non solo al teatro ufficiale, al teatro compiaciutamente spettacolare della società dello spettacolo. Ora, a rileggere quelle dichiarazioni ormai di tanto tempo fa, lo storico rivive il piacere di quell'epoca e da spettatore diviene ricostruttore critico: e tutte le tessere vanno ineluttabilmente al loro posto a formare il mosaico intero; in questo senso il tempo è veramente galantuomo. E non gioverà certo, a chi ci accusa di essere dei nostalgici, opporre alla nostra nostalgia (etimologicamente: "ritorno [con] dolore") una realtà presente che ha solo il valore di essere presente, appunto: a costoro risponderemo come Casanova vecchio sbeffeggiato dagli altri vecchi: "Dove sono ora le tue capacità amatorie? Dove sono finite tutte le tue donne?" "A differenza di voi io posso vivere di ricordi". Ed è proprio questo secondo aspetto, quello della opposizione al teatro toutcourt (ché se si trattasse solo del primo punto, quello dell'opposizione al teatro ufficiale, sarebbe soltanto questione di 'avanguardia'; e su questo discorso torneremo), che sostanzia le poetiche di quell'epoca della nostra scena e che le distingue da tutto quelle contemporanee con cui vennero confuse in buona e cattiva fede; là dove, al contrario, da una parte abbiamo una contraddizione autentica e dall'altro un'opposizione finalizzata a occupare i posti di potere allora tenuti dalla vecchia generazione -e non a caso tutto ciò avviene a ridosso del sessantotto. Ma leggiamo ancora e completiamo la citazione di Leo e Perla dell'ottanta: "L'avanguardia esiste nei periodi rivoluzionari: in Italia non c'è mai stata. È un termine di comodo che si è dato da noi ad un teatro diverso da quello di potere. Alcuni di noi hanno combattuto davvero il potere, per altri è stato solo un periodo di anticamera prima del teatro ufficiale". Si tratta di una decisa presa di distanza da parte di Leo e Perla da quello che Sanguineti, a nome di tutti i componenti del Gruppo '63, aveva teorizzato come il momento cinico dell'avanguardia, quello che prevedeva, nell'orizzonte sia teorico che pratico degli appartenenti a quel movimento, la lotta all'arte passatista per sostituirla, nel potere dell'arte, a quella 'nuova' (dove c'era anche, con molta evidenza, una mitologia del 'nuovo': e, infatti, "novissimi" si definirono quegli scrittori). Leo e Perla rifiutano tutto ciò anche se non certo in modo moralistico: ecco le parole che seguono a quelle appena citate: "È giusto, e noi siamo stati i primi a sostenerlo, che non si può stare tutta la vita in spazi marginali: vogliamo la Scala, il Bolscioi come dissidenza permanente". Come dissidenza permanente, abbiamo letto, per portare la rivoluzione in quei teatri che sono il tempio del teatro borghese sotto qualsiasi forma si presenti (e, infatti, Leo e Perla citano anche il Bolscioi) e non per fare dell'avanguardia un'arte da museo, ancora secondo il dire sanguinetiano. Ma a questa presa di posizione morale si accosta quella teorica. Ecco ancora Leo: "L'avanguardia secondo me non è mai esistita nel senso che è un equivoco parlare di avanguardia teatralmente, per il semplice fatto che il teatro non può essere d'avanguardia, il teatro può essere solo CONTEMPORANEO" (No, co' cazzo. Intervista con Leo De Berardinis, a cura della redazione di "Scena", in "Scena", settembre 1977, p. 6).
È questa un'affermazione che consuona decisamente con ciò che spesso ebbe a dichiarare Carmelo Bene e cioè che l'avan-guardia è cinica perché nega il presente; e questa consonanza non è certo casuale dal momento che a negare che il loro teatro fosse d'avanguardia, insieme a Leo e Perla e a Carmelo Bene, c'era anche Rino Sudano, lucidissimo, che col suo teatro 'etico', imperniato oltre che su di sé su Anna D'Offizi, mostrava quanto fosse compromesso con il potere il teorizzare avanguardistico.
Il teatro, dunque, può essere solo contemporaneo; il che è poi a dire che quel teatro, quello che stavano in quegli anni realizzando Leo e Perla (e gli altri citati, ovviamente, cui si dovranno aggiungere Carlo Quartucci con Carla Tatò, Claud io Remondi con Riccardo Caporossi; e Carlo Cecchi) era il teatro dei nostri tempi, l'unico teatro possibile. Con questa affermazione di Leo e Perla si esce dagli equivoci che possono essere favoriti da una lettura superficiale dello stile così proprio e caratteristico di questo linguaggio della scena: il non uso dello stile, e anzi la contrapposizione nei suoi confronti, del teatro tradizionale non comporta di necessità un'adesione alle poetiche avanguardistiche ma, appunto, una negazione del teatro ufficia le contemporaneo. E qui, ancora una volta, sarà necessario precisare: non di contraddizione solamente nei confronti del teatro ufficiale ma anche, e soprattutto, nei confronti del teatro ormai totalmente compromesso con la società dello spettacolo, dell'idea stessa del teatro moderno come espressione di un sentire borghese che questi eccezionali teatranti rifiutano nella sua globalità e non solamente nel suo aspetto esteriore e ineluttabilmente superficiale, e cioè nel suo costituirsi come uno strumento di potere. Ecco che allora Perla, per tornare all'assunto principale di questi appunti, risulta un'attrice tanto più grande quanto più "contemporanea" dal momento che incarna fino in fondo, e rende espressivamente sulla scena, il tormento autentico dell'epoca in cui vive e fa teatro. Un saggio su di lei, che intendesse sviscerare questo aspetto, si potrebbe intitolare: l'attore tragico nell'epoca dell'impossibilità e dell'assenza del tragico. È un titolo reboante e anche un po' magniloquente, ma non bisogna aver paura di essere reboanti, e anche un po' magniloquenti, quando le parole corrispondono così precisamente al concetto. Di questa affermazione si dovrà rendere conto. E dunque, e infatti, non di attore drammatico si parla qui ma di attore tragico, il che risulta poi coerente con l'impostazione che abbiamo, sulla scorta di dichiarazioni esplicite di quei teatranti, dato al nostro discorso: non un teatro d'avanguardia fu il loro ma il teatro, proprio così, tout-court che si oppose - ovviamente con totale insuccesso nell'epoca del trionfo dell'ovvio, del banale e del servile - al sentire di tutta un'epoca storica. Dunque non drammatico, in quanto il drammatico è l'espressione tipica del teatro borghese, ma proprio tragico nel senso antico; perché - e questa è una costante dell'agire teatrale di tutti quelli che abbiamo citato - la poetica scenica del teatro di contraddizione fu quella di rifarsi all'antico (e non diceva già Petrolini "Torniamo all'antico, faremo un progresso"?) là dove si può ritrovare il sapore di un teatro non borghese, là dove il teatro era ancora espressione di un sentire etico-religioso in cui si rispecchiava tutta una società. È evidente che questo sentimento non può divenire stile; anzi è più che evidente che lo stile in cui si esprimerà questo sentimento nell'epoca dell'impossibilità e dell'assenza del tragico sarà di necessità lontanissimo da quello cui si ispira, dal momento che ora bisognerà mostrare tutto il tormento dell'uomo lacerato dalla contraddizione tra la nostalgia per un passato definitivamente passato e un presente in cui questa nostalgia non può non rivoltarsi in dolore, giusto l'etimo, e spasimo per questa mancanza. Non si tratta, quindi, di adattare il tragico ai tempi, che è l'ufficio svolto dal drammatico, ma proprio di rimanere tragici e tragicamente esprimere l'orrore. Cosa che Perla seppe fare nel modo più alto dal punto di vista artistico. Nulla di drammatico c'era nel modo in cui lei investiva con la sua rabbia il materiale della propria recitazione, ma tragedia pura, la tragedia dei nostri tempi, quella dell'urlo di Munch, dei versi di Pound e dei suoni di Schoenberg: il critico, oggi, non ha remore a affermare che mai, nel teatro italiano, si è realizzata a tanta altezza una recitazione così straordinaria. Bisogna però tenere conto della cornice in cui questa eccezionale recitazione si realizza; e qui Leo e Perla non sono disgiungibili. Quando fondano il Teatro di Marigliano, dopo l'esperienza di quello che definiranno "il teatro come errore" (La faticosa messinscena dell'Amleto di Shakespeare e Sir and lady Macbeth), agli inizi degli anni settanta, intendono proprio scavare fino a mettere a nudo le radici del teatro popolare alla ricerca non certo dell'autenticità perduta - ché sarebbe la solita banale e consolatoria nostalgia filistea -, ma di quel teatro "diagnostico" che teorizzano: "Pound diceva una cosa molto importante; ci sono due tipi di arte, una diagnostica, l'altra curativa, giusto? Per esempio il nostro teatro è diagnostico, fa le diagnosi, cerca di far vedere dove sta il marcio, il male ecc. ecc… il male non inteso in senso di peccato, il male a livello storico, no?" (F. Bettalli, Intervista con Leo De Berardinis, in "La scrittura scenica", 1976, p. 77). Che è poi l'unica forma di autenticità possibile, nel senso di non consolatoria, che un teatro vero, anzi il teatro, possa prevedere nell'epoca dell'uomo reificato e dei rapporti amministrati. Ma per raggiungere questi eccezionali risultati era necessario che avvenisse quell'interazione scenica tra Leo e Perla che risulta la cifra strutturale particolare e unica del Teatro di Marigliano. Anche Leo è un attore tragico nell'epoca dell'impossibilità e dell'assenza del tragico ma egli, volutamente anche se non dichiaratamente, mantiene ancora in sé tracce dell'attore drammatico, residui del teatro borghese che fanno da trait d'union fra il teatro della tradizione italiana e quello diverso, ineluttabilmente nuovo senza il feticismo del 'nuovo', che stanno praticando. E Leo ottiene questo mantenendo in vita, per certi aspetti, lacerti sparsi e desolati del ruolo del 'brillante'. Per comprendere bene questo ruolo che Leo si ritagliò nella struttura scenica degli spettacoli del Teatro di Marigliano sarà il caso di ricorrere al dire dello stesso Leo di quegli anni e cioè, l'abbiamo già scritto, al pensiero di Leo e Perla.
Ecco come Leo definisce l'attore: "per me attore è il poeta fisiologico… ma che arriva a livello proprio da induismo, cioè diventa, a un cero punto, un essere capace di fare miracoli… con la conoscenza… non più con l'arte; cioè il superamento dell'arte, io spero, io cioè, teoricamente penso questo. Lo so che non ce la farò nella mia vita a farlo, sia come tempo, sia come possibilità, tante cose… talento, tempo e denaro ci vorrebbe; io non ce l'ho, nessuno dei tre" (Op. cit., p. 94). Bisogna soffermarsi sulle parole di Leo; il suo affabulare, apparentemente confuso, potrebbe trarre in inganno. Ma non c'è confusione nel pensiero, siamo solamente in presenza di un modo particolare di esprimersi che non è esclusiva mente del parlato, ma che è proprio del dire di un artista. Il discorso procede per folgorazioni e paradossi, ma possiede una sua logica strettissima e ineluttabile. Il paradosso più vistoso, in ciò che abbiamo citato, è costituito dalla dichiarazione di Leo di non avere talento; ma è evidente che si tratta di un paradosso che si comprende se si pone mente al fatto che sa di avere meno talento di Perla; ma egli ha Perla; quando non l'avrà più come compagna d'arte il suo discorso cambierà. Ora, 1976, quello che qui si afferma è la struttura profonda di quel linguaggio della scena: il centro di tutto, al di là delle apparenze che pertengono solamente a una lettura superficiale, è Perla magari insieme, a ben diverso livello, è ovvio, agli altri mariglianesi. L'attore, per Leo e Perla, dev'essere portatore di conoscenza, deve avere la capacità di giungere a essere portatore di conoscenza, superando la necessità di formare, la necessità dello stile così profondamente compromesso con l'estetica nella società estetica, dell'estetica diffusa, dell'estetica confusa con la cosmetica, dove veramente l'estetologo - brutta parola - si trasforma in estetista - parola ancora più brutta; ma perché a designare una funzione del bello, alta o degradata che sia, ci sono solo, qui e ora, brutte parole? La coscienza di questo limite spinge Leo e Perla verso l'utopia dell'attore "conoscitivo": il che è perfettamente coerente con ciò che abbiamo letto prima sul teatro diagnostico: una diagnosi, infatti, si fa attraverso la conoscenza che risulta così il massimo del livello artistico possibile per un attore. Ma è necessario ancora citare anche per constatare come questi meravigliosi teatranti seppero, in quegli anni, far coincidere perfettamente la loro poetica esplicita con quella implicita nel loro straordinario linguaggio della scena; il che, diciamolo pure di passata, avviene assai raramente e il critico che sia anche uno storico sa bene che questo succede solamente quando ideazione dell'arte e realizzazione di questa coincidono in artisti che affrontino il nodo con la piena coscienza di dare ai tempi l'arte che i tempi meritano, e cioè di essere fedeli a quella "contemporaneità" che, abbiamo letto, Leo e Perla pretendevano per sé e per il proprio teatro. E, dunque: "Eduardo De Filippo e Miles Davis […] sono arrivati a queste condizioni di poesia teatrale; come, per esempio, Perla è arrivata a questa condizione… Carmelo anche… sono arrivati a questa condizione… sono in pochi nel mondo, cinque o sei; però sempre ancora a livello estetico, non ancora a livello conoscitivo… religione come conoscenza ultima" (Ibidem). E qui tutto diventa chiaro. Ma ancora, e infine, a sottolineare la differenza tra sé e Perla: "Perla azzeccherà sempre la cosa anche fuori intenzione dell'intelletto […]. Come Raffaello… che era la mano che dipingeva, però 'sta mano era tutto se stesso. Mentre Michelangelo era più importante perché ci aveva una mano che scolpiva e un pensiero che lo fermava e nacque il manierismo. Si fermò ai Prigionieri[;] a me interessa forse più Michelangelo" (Op. cit., p.95). Ecco, Perla è la mano che diventa tutta se stessa e Leo scolpisce e un pen-siero lo ferma: è ancora legato al passato - come l'angelus novus benjaminiano -, alla tradizione, al teatro borghese perché ancora forma e fa formare, ancora frequenta l'estetico. Infatti questa è la funzione di Leo, regista in scena. Egli, bellissimo -elemento non secondario, ma fondamentale: l'attore è il proprio corpo, non certo nel senso ginnico-terzo teatrale del termine, e la propria mente fusi in una simbiosi totale; e del proprio corpo, quando sia veramente un attore, fa teatro-, si aggira per la scena vestito elegantemente: stivaletti, jeans, camicia di seta, foulard anche questo di seta fermato da una spilla che pretende di essere preziosa, capello di feltro di colore accordato con il resto dell'abbigliamento: il regista in scena è anche l'esteta che si aggira ironico e disperato sulle assi del palcoscenico tentando di mettere insieme i pezzi rotti di chissà quale unità irricomponibile, disperato e straziato proprio per questa impossibilità di ricomporre, di mettere i frammenti al proprio posto, perché i frammenti del teatro sono lì, mostrati nella loro nefanda e affascinante nudità, che gli si rivoltano contro e non vogliono essere ricomposti perché ormai nessuna ricomposizione è possibile che non sia compromessa con il consolatorio ritorno all'ordine. E c'è pure un'altra funzione dell'agire scenico di Leo su cui, a questo punto, è necessario fermarsi a riflettere: ed è quella del costruire una struttura linguistica a impronta 'narrativa' che sia in grado di creare una nicchia per l'espressione 'lirica' di Perla. Valéry, in qualche suo luogo, afferma che chi vuole frequentare la prosa dev'essere ben conscio del fatto che prima o poi dovrà scrivere "Ed egli chiuse la porta". Il poeta lirico può saltare i passaggi, i nessi narrativi, non conosce le necessità della trama; non così il narratore e nemmeno l'attore di prosa ("di prosa", appunto): si tratta di quegli snodi narrativi che il grande attore ottocentesco tendeva a ignorare dando spazio alle 'romanze' del testo, là dove tutti gli spettatori, abituati a quel tipo di spettacolo, lo attendevano ma che, con la posizione forte che il testo letterario viene a assumere nel novecento, ora gli attori devono rispettare per evidenti ragioni imposte dalla trama. Il solo Benassi, in pieno novecento, si può permettere di tirar via velocemente le battute che evidenziano gli snodi narrativi, a volte addirittura saltarle: ma ciò che il pubblico - meno la critica che glielo imputa a difetto - è disposto a concedere a lui, magari obtorto collo, riconoscendo il suo genio attorico, non è poi altrettanto disposto a concederlo agli altri. Leo non conosce certo questo problema: il tipo di teatro che fu quello di Marigliano certamente non si basa sulla trama. Eppure qualcosa di quella rimane: una trama folle, allucinata, asintattica, frammentata, spezzata, lacerata ma qualcosa rimane, ed è giusto che rimanga dal momento che questa trama 'contraddittoria', nel senso che contraddice il feticismo della trama dello spettacolo borghese (proprio in quel tempo, anche in Italia, si incomincia a andare al cinema all'inizio dello spettacolo), questo lacerto risibile e sfrangiato di trama è affidato a Leo. Regista in scena, s'è detto, egli costruisce intorno a Perla e ai mariglianesi, fin che sono presenti nei loro spettacoli, una rete di rapporti per cui loro, e qui intendiamo Perla sopra tutti ovviamente, possono esprimersi liricamente e ciò è a dire senza dover tenere alcun conto del lacerto di trama che rimane a indicare che di teatro di prosa si tratta, se pure rivoltato come un guanto: nessuna fuga in avanti in questa poetica teatrale che contempla, al contrario, il vivere e recitare fino in fondo il presente, la contemporaneità, che è la caratteristica del vero teatro non solo secondo Leo e Perla. E tutto ciò Leo realizza, all'interno di questa struttura, con toni, con gesti tutti accordati su un registro grottesco: secondo l'esempio petroliniano (ma ci sono anche Viviani e Totò) l'orrore è rivolto in prima battuta a se stesso anche se non risparmia certo gli altri. La cifra di questi spettacoli è costituita da una cattiveria disperata e disperante, dalla mancanza totale di ogni ipotesi consolatoria, dall'affermazione sofferta e dolorosa dell'impossibilità di tornare indietro. E questa cattiveria è anche, ma si potrebbe dire soprattutto, di Perla. Senza nessun pudore che non sia strazio per il pudore perduto, mette a nudo se stessa con una implacabilità che non inscrive in questa nemmeno il piacere della sofferenza: si tratta di dolore puro, di sofferenza totalmente autentica, della tragedia dei nostri tempi, del- l'unica tragedia possibile. Nessuna ambiguità estetica o estetistica nella recitazione di Perla, che non è un'"attrice".
Infatti lei è ciò che è, mutata forma dell'esprimersi e fatta salva la finzione comunque necessaria a chi accetta di esibirsi su una scena, perché di una ineluttabile esibizione si tratta, anche quando questa esibizione prevede una percentuale di finzione ridotta dal momento che quel recitare se stessa risulta la messinscena della propria realtà: "Ma io credo che Perla sia così. Non nel senso com'è in scena. Cioè Perla ha una pena, un'angoscia tale, partecipa tanto di certi problemi e di certi fatti, per cui automaticamente si sente più a suo agio, come vita, come partecipazione politica alla vita, facendo quelle cose là, Ma non come 'parte'. Cioè 'io faccio la parte'… Può sembrare perché in effetti lei non è come Sebastiano, come Gigino, eccetera […], so una cosa: che lei funziona come… 'parti chiuse' di una cosa. Cioè in tutto lo schema -parliamo di teatro come tecnica- lei è un riferimento costante, qualcosa di fisso, la martellata che arriva ogni tanto" (Incontro con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, a cura di R. Bianchi e G. Livio, in "Quartaparete", 1977 - l'incontro è però datato 27 marzo 1976 -, p. 180). Leggiamo ancora: "È lei, è 'così'… Gli altri sono diversi da lei. Perché lei è veramente arrabbiata. Forse adesso ci stiamo avvicinando. Anche lei è come Nunzio, Sebastiano, ecc., in quanto è quello che è lì. Non so se sia chiaro. Però in una dimensione completamente 'altra'. Questo sì. Perché 'lei' è diversa da 'loro'. È diversa da loro ma in effetti è come 'loro' […]. Lei vuole -almeno per quello che ho capito io- vuole essere quello che è 'in scena'" (Ibidem). Come loro, e quindi come i 'disgraziati' di Marigliano, ma non come loro: e ciò è a dire che Perla recita se stessa, come i mariglianesi, ma con qualcosa che manca completamente a quelli, come è ineluttabile, e che è l'alto senso del tragico e la coscienza dell'impossibilità di questo. Però anche lei, come quelli, porta in scena i propri sentimenti: ma quelli 'riempiono' la scena; e, dunque, 'mettono in scena' se stessi mentre lei quella stessa scena 'svuota' con il proprio sentimento del vivere: e il palcoscenico si mostra così nudo pur nel momento in cui Perla spasima su quelle assi e il suo spasimo lo rende un organo cavo pronto a recepire l'angoscia critica dello spettatore filtrata attraverso il piacere estetico, che pur permane, di quella recitazione: meravigliosa epifania dell'unica forma di critica dell'arte e della vita possibile, in teatro, oggi. I toni bassi e profondi della voce di Perla, i suoi gesti disperati veicolano la sua rabbia nei confronti di un mondo e di un teatro ormai totalmente degradati; e questa degradazione è anche la sua, è soprattutto la sua, come 'attrice' che non vuole più essere tale perché non vuole più fingere anche se si sente spinta da un forte sentire etico a continuare a fingere perché un giorno non esista più la necessità di fingere. Perla realizza qui, almeno come 'tensione verso', quell'utopia del teatro pornografico, che cioè azzera la metafora, di cui ha tanto parlato Carmelo Bene. Ma è questo un campo del pensiero teatrale anche di Rino Sudano: e segnalare i collegamenti tra queste che sono le poetiche più alte del nostro teatro del secondo novecento non costituisce solo un dovere del critico, ma anche il suo piacere.
A questo punto è necessario sgomberare il campo da un ultimo equivoco possibile. La tranche de vie che abbiamo trovata nel linguaggio della scena di Leo e Perla ("Noi siamo e non rappresentiamo"; L. De Berardinis e P. Peragallo, Come imparare la difficile scelta del teatro. Se fosse possibile insegnare, in "Sipario", II trimestre 1980 - ma lo scritto è datato 15 settembre 1978 -, p. 57) non rappresenta certo un'identificazione di arte e vita così come ci è proposta da chi volle l'estetizzazione di quest'ultima: al contrario questo teatro mostra la disestetizzazione della vita: le mani sporche di Perla, per fermarsi a un segno forte di quel linguaggio della scena, che rimesta sempre nella terra (magari contenuta dentro la bara bianca di un bambino) e nelle più incredibili accozzaglie di cose accatastate, mostrano proprio la sua degradazione. Contro il cinismo dell'avanguardia, che tende a separare vita da opera, questi eccezionali teatranti rivendicano il diritto di mostrare le loro vite straziate nell'epoca del trionfo definitivo della mercificazione dell'arte; ma anche il loro pervicace vivere fino in fondo il destino dell'artista nel tempo della sua degradazione mostrando così - in corpore nobili che è anche vili - che è inutile illudersi e che l'epoca romantico-decadente non è ancora passata se non per chi, cinico o sciocco, vuole illudere gli altri e se stesso.
Poe, Baudelaire e Wilde, tutti insieme, filtrati dall'assimilazione di Kafka, Joyce, Pound e Beckett: Perla rappresenta l'unica forma di poesia possibile per il teatro (e l'arte) dei nostri tempi: il mostrare in modo straziato e doloroso l'impossibilità di essere ancora, oggi, poeti.

G. LIVIO, "L'asino di B.", numero 7, 2002.