Roberto Bracco
a cura di Marilena Gentile e Samanta Scidone
Il teatro di prosa - non par vero - è un po'... come l'Amore, quanto più si discorre d'Amore, tanto meno l'Amore finisce.
R. Bracco
a cura di Marilena Gentile e Samanta Scidone
Il teatro di prosa - non par vero - è un po'... come l'Amore, quanto più si discorre d'Amore, tanto meno l'Amore finisce.
R. Bracco
Le sartine e le signorinelle di Napoli, uscendo dalle tenebre di questa o quella sala di Cinema dove avevano riveduta sullo schermo, dopo una non breve assenza, Francesca Bertini, dicevano, ammusendo: "nun è cchiú essa!"
E, cogitabondi, confermavano la sentenza delle sartine e delle signorinelle tutti coloro a cui l'assiduità nelle sale tenebrose dei cinquanta cinema cittadini ha conferito la speciale autorità di magistrati e, di jerofanti della cinematografia. Francesca Bertini è, come sapete napoletana. E quindi c'era nella sentenza deploratrice una punta di rancore campanilìstico. Ella, nel periodo più florido più fecondo più mosso della Cinematografia italiana, fu, in Italia, approssimativamente, un Rodolfo Valentino donna. Le sartine le signorinelle i competenti gli specialisti non l'avevano ritrovata come la ricordavano e come avrebbe avuto l'obbligo di essere riapparendo nell'aureola della superdiva. Che diamine era accaduto da renderla impari alla sua fama?...
Alcuni anni fa ella andò a nozze innestando il sì nuziale al giuramento di abbandonare la sua trionfante carriera, e poi, regolarmente spergiura, se n'era lasciata riprendere. Ma, la vicenda coniugale non aveva potuto sminuire le sue preziose facoltà di cinematografaia. L'intervento d'un marito nella vita d'una cinematografaia non guasta in lei quel che di lei lo schermo esibisce al pubblico. Escludiamo, dunque, dalle nostre indagini il focolare domestico. E guardiamo all'attrice nell'ambito dell'attrice. Questa bella creatura sbocciata, come per una riviviscenza della più pura leggiadria grecolatina, tra Posillipo e il Vesuvio - e, forse, più precisamente, in qualche pittoresco vicolo di Montecalvario -, esordendo a sedici anni sulle tavole del teatro dialettale, si mostrò incapace di padroneggiare il palcoscenico e di mettere nella sua voce le parole d'un personaggio di dramma o di commedia. In verità, piuttosto insufficiente, pareva preoccupata del funzionamento troppo gravoso dell'attrice parlante. E certo è che, appena lanciata nell'Arte Muta da Giuseppe Barattolo, fondatore della Caesar film -un altro napoletano puro sangue-, si rivelò eccellente cinematografaia. Poté riempire di sé un enorme numero di quei chilometri di celluloide che si chiamano pellicola, poté riempire di quattrini la sua fresca giovinezza attingendoli alla prospera cassa del suo non avaro ma accorto impresario. Era esclusivamente l'effetto del fascino della sua avvenenza? ... Affermare ciò sarebbe una calunnia, come fu in sostanza, una calunnia l'elogio iperbolico che la frenesia femminile nord-americana tributò, nel disperato rimpianto all'avvenenza maschile del defunto Rodolfò Valentino, perché quell'elogio astraeva da ogni altra ragione di rimpianto quindi deprezzava le prerogative che di lui avevano ausiliata l'avvenenza sulla via della fortuna. Sottratta alle difficoltà e alla responsabilità del funzionamento dell'attrice parlante sulla scena afona protetta da Arpocrate, dio del Silenzio, Francesca Bertini raggiungeva una possente efficacia di espressione, con quell'armonica compostezza di plastica che è così necessaria nel quadro dello schermo per la particolare sensitività che hanno gli occhi dello spettatore il cui udito abbia cessato d'essere tramite di sensazioni.
Perché sì determinava questa cospicuità d'arte rappresentativa?….. Quali elementi vi contribuivano?... La cultura? Lo studio? Una particolare elevatezza intellettuale?... Uhm Conversando con Francesca Bertini, seguendola nell'ambiente del suo lavoro, ascoltandola discutere d'un film compiuto o di un film progettato, se ne aveva l'impressione d'un geroglifico indecifrabile. E il solo elemento che si notava come fattore del risultato della sua attività cinematografica era….. il suo capriccio: un capriccio che signoreggiava, comandava e ineluttabilmente operava.
Del resto, nulla c'era intorno a lei che potesse imporle un freno, un metodo, un criterio preciso, una regola, una disciplina. Don Peppino Barattolo accentrava in sé tutti i poteri propulsivi della Caesar film. Ne voleva essere il motore unico. Un istinto dittatoriale unito a un'agilissima intelligenza. E appunto quell'agilità esuberante si risolveva in una continua estrosa improvvisazione, in una perenne mutevolezza, in una incessante elasticità, in un vertiginoso svolazzo d'idee, di criteri, di ordini, di contrordini. E lo svolazzo l'elasticità la mutevolezza lo spirito d'improvvisazione si propagavano dal motore unico in tutto il vasto cantiere. Ma da una così caotica atmosfera usciva sempre un'ottima Francesca Bertini in un film che sempre commoveva il pubblico e che non di rado era tale da neutralizzare la più esigente severità artistica.
Io n'ebbi una personale esperienza. Don Peppino Barattolo acquistò la mia Piccola fonte per trarne un film. Supplichevole, gli dissi: "Fatemi il favore di non affidare il personaggio di Teresa alla Bertini. Teresa è una piccola umile creatura dall'aspetto insignificante. Assume l'importanza di un'alta poesia per la sua piccolezza, per la sua umiltà, per il suo niente. E diviene indispensabile a Stefano Baldi, fatuo megalomane dalle gonfie ambizioni, quando, chiusa nella sua dolce pazzia, è per lui addirittura un'assente. Francesca Bertini è troppo bella, troppo invadente, troppo protagonista. Rovinerebbe il mio dramma. Lo falserebbe. Lo capovolgerebbe". Don Peppino Barattolo trovò giusti i miei timori, promise di secondarmi. Dopo tre o quattro mesi, ricevetti un suo biglietto, col quale m'invitava a recarmi in una villa di Posillipo, dove si eseguivano - "si giravano" - alcune scene de La piccola fonte, aggiungeva, con disinvoltura, che la Bertini aveva reclamata la parte di Teresa. Ma mi rassicurava: "Vedrete! Francesca si è trasformata. Sarete contento".
Precipitosamente mi recai a Posillipo, trepidante. Quando, sul meraviglioso sfondo del mare azzurro e del fogliame di smeraldo, scorsi Francesca Bertini truccata da pazza, sentii un colpo secco al mio cuore d'autore ed esclamai: "Poveretto me!" La sua bellezza s'era arricchita di nuove linee, di nuovi colori, di nuova luce. Si fondevano in lei Aglaia, Flora, Venere, Giunone, modernizzate e impazzite. Non m'era mai parsa così sorprendentemente bella! Non m'era mai parsa così idonea a comandare, a spadroneggiare, a dominare pazzescamente! Don Peppino, che aveva dovuto tradirmi, andava sgattaiolando pei viali della villa. Francesca Bertini non badò a me, intenta a fare la pazza come la sua fantasia le suggeriva. L'operatore - il fotografo -, con assorta devozione, regolava i giri della macchina fotografica. Il metteur en scène, in un cantuccio, taceva, estasiato. E, ugualmente tacendo, io restai lì a guardare annichilito.
Mentirei se dicessi d'aver poi riconosciuto del tutto il mio dramma nella proiezione del film de La piccola fonte. Ma è indubitato che, se pur mi fosse stato consentito, io non avrei saputo né voluto modificarlo; ed è indubitato che in quel film Francesca Bertini ottenne un grande successo.
Non ho ancora detto, e mi piace di dirlo adesso, che il film in cui di recente ella ha fiascheggiato non è un film prodotto in Italia. Evidentemente, trasportata in un laboratorio di Cinematografia non italiana, la superdiva è rimasta come un pesce fuor d'acqua, come una rondine ingabbiata. Ed ecco perché... non è stata "cchiú essa" non è stata più lei. Ella aveva bisogno di fare a modo suo in un ambiente che senza restrizioni glielo consentisse. Era la personificazione completa della migliore Cinematografia più veramente italiana e più italianamente vitale, caratterizzata dalla genialità inconsapevole, dall'assenza d'idee e di criteri precisi, dalla mutevolezza, dall'elasticità, dall'impreveduto, dall' imprevedibile, dall'avvento del capriccio, dall' indisciplina.
Innumerevoli esempi analoghi al caso de La piccola fonte e della Bertini potrei cavare dai ricordi delle mie escursioni nel mondo della Cinematografia. Ne cavo soltanto un altro. Riguarda la prima escursione. E mi sembra tipico oltre che interessante.
Il marchese Alfredo di Bugnano, oggi senatore del Regno uno degli iniziatori dell'industria cinematografica - napoletano anche lui - comperò il mio dramma Sperduti nel buio, che giustamente giudicava molto cinematografabile. Io, peritoso come sempre, lo pregai di scritturare attori di rinomanza che potessero sorreggere la baracca. E soprattutto gli raccomandai di affidare a un attore valoroso e adatto la parte di Nunzio, il povero cieco buono mite debole assetato di tenerezza, la cui cecità raffigura il buio sociale nel quale tanti esseri umani, ignoti ignari abbandonati a se stessi, son condannati a sperdersi. Quell'attore doveva riuscire a esprimere sullo schermo il mio pensiero. Il marchese Alfredo di Bugnano, per la parte di Nunzio, scritturò... il rinomato siciliano Giovanni Grasso, l'attore più massiccio, più nocchiuto, più nerboruto e più violento che sia mai comparso alla ribalta! Il mio amico carissimo Nino Martoglio, l'indimenticabile poeta catanese, commediografo e capocomico, era stato chiamato a funzionare da direttore supremo. Perché?... Perché siciliano come Grasso. Null'altro che la comunanza etnologica aveva determinata la scelta. L'esperienza del teatro era affatto estranea alle esigenze artistiche e tecniche della cinematografia d'allora, riproduzione di moto, di mimica, di mutismo. Intanto, Nino Martoglio, un vero artista, comprendeva l'inconciliabilità dei connotati e del temperamento di Giovanni Grasso con la parte di Nunzio. Si disperava insieme con me:
"Come farò a renderlo esile? a diminuirlo? a indebolirlo?"
Io lo esortavo:
"Potrai almeno raffrenarne gl'impeti. Tu sei il direttore." "Sì, ma, capirai, sono alle prime armi."
Volle che lo assistessi.
"In due" diceva "potremo esercitare su lui un po' più d'influenza."
Cominciammo a eseguire il film. Giovanni Grasso trasformava lo scenario. Tagliava, aggiungeva, improvvisava. Una mattina, lavoravamo a Napoli, sulla Via Caracciolo, in una vivida ala di sola che si rifletteva nel mare accanto. Si girava una scena in cui Nunzio si lasciava guidare da Paolina, sua piccola innocente compagna di buio, e col suo intuito di cieco si accorgeva, penosamente, che alcuni giovinastri tentavano di attirarla. Si prestavano a far da giovinastri quattro o cinque onesti filodrammatici di buona volontà. A un certo punto, Nunzio, cioè Grasso, divenne una belva si scagliò contro i giovinastri, ne afferrò uno, lo sollevò di peso e lo scaraventò verso il parapetto della strada. Un urlo corale di spavento troncò l'ira erculea del cieco. Per miracolo l'onesto filodrammatico ch'era nei panni del disgraziato giovinastro non andò a finire in mare. In tono severissimo, Nino Martoglio domandò:
"Ma che t'è saltato in mente, Giovanni?"
Il possente siculo, impettito e ancora vibrante dal capo ai piedi, rispose col più stretto accento dialettale:
"Giuvanni Grassu un è statu mai curnutu!"
Consigliai a Nino di non replicare.
Di simili episodi, un po' spassosi e un po' disastrosi, abbondò la costruzione del film degli Sperduti nel buio. Ma nel film compiuto quel grosso uomo selvaggio, in molti momenti dolorosa mansuetudine, esprimeva lo smarrimento la pochezza l'impotenza con una così lucida plastica che strappava le lagrime. Il mio pensiero, in complesso, risultava, sì, alquanto spostato dal centro iniziale. Nondimeno - dovevo convenire - serbava la sua essenza, e, anzi, vi si poteva scorgere qualcosa di più. La cecità di Nunzio simboleggiava "il buio sociale"…… in cui si perde, inutile, anche la forza fisica degli esseri umani ignoti ignari abbandonati a se stessi.
L'indisciplina della Cinematografia italiana mi aveva attribuito un pensiero più malinconico e più profondo.